LE FALLACIE DELL’ECONOMIA TRADIZIONALE – Parte 5


Prosegue l’esame delle principali fallacie che farciscono la teoria economica tradizionale. Errori fondamentali che derivano essenzialmente dalla sua visione preanalitica e dal suo approccio cognitivo analitico, lineare, riduzionistico, che è poco appropriato per affrontare i problemi dell’economia che è soprattutto una scienza sociale, radicata in una realtà molto complessa.

In questa quinta parte viene esaminata la fallacia che è all’origine del feticismo monetario, una psicosi collettiva che ci illude che la ricchezza finanziaria sia reale. Si indaga inoltre sulla fallacia di composizione, responsabile della confusione che la teoria economica tradizionale fa tra i livelli micro e macro del sistema socioeconomico. Una falla cognitiva dalla quale deriva il suo tipico approccio, ingenuamente microeconomico, allo studio della macroeconomia, che è invece una scienza della complessità, che ha per oggetto lo studio delle dinamiche del sistema socioeconomico complesso, inteso come un tutto.

All’economia ecologica (che non è la green economy né tutte le altre economie colorate, che sono solo fallaci derivazioni della teoria economica tradizionale) va il merito di aver criticato, in modo costruttivo, acuto e profondo, i concetti sui quali si fonda la teoria economica tradizionale, neoclassica e neoliberista.

L’economia ecologica è intrinsecamente diversa. E’ un’economia che merita di essere conosciuta dalla gente perché è un’economia umana; è  l’economia del benessere sociale, attenta soprattutto ai bisogni delle persone, oltre che alla Natura.



9    IL FETICISMO MONETARIO:  L’ILLUSIONE DELLA RICCHEZZA FINANZIARIA NAZIONALE

Il contributo di Soddy alla scienza economica

Frederick Soddy (1877 – 1956) è stato un chimico e fisico britannico, premio Nobel per la chimica nel 1921, che ha fornito importanti contributi alla moderna teoria della struttura atomica. Nel 1913, egli introdusse per primo il concetto di isotopo, ossia di elemento chimico con medesimo numero atomico e stesse proprietà chimiche, ma con peso atomico e massa differenti. Nella  seconda parte della sua vita, egli si dedicò, in modo particolare, allo studio dell’economia, apportandovi diversi interessanti contributi. Due di essi sono particolarmente importanti:

a)    L’introduzione, già a partire dagli anni ’20 del XX secolo, dei principi della termodinamica a fondamento della scienza economica. Aspetto che fu successivamente approfondito da Georgescu Roegen, negli anni ’70. Per questo suo contributo, Soddy è riconosciuto tra i pionieri dell’economia ecologica.

b)    Il concetto di ricchezza come entità complessa. Soddy ci avverte che la ricchezza è un concetto dai risvolti molteplici, che si può descrivere osservandola su diversi piani, che non si corrispondono. Uno è il piano di astrazione, simbolico, della “ricchezza finanziaria” (monetaria). Un altro è il piano di astrazione, reale, della “ricchezza biofisica”. Si potrebbe dire che Soddy aveva già intuito la natura complessa della ricchezza in economia; un’entità che si può solo parzialmente comprendere aggregando le osservazioni effettuate da diversi proiezioni o punti di vista. Per comprendere un’entità complessa occorre descrive la sua dinamica sui diversi piani di astrazione, che sono tra loro incommensurabili. Mentre si ragiona, si individuano le leggi e si costruiscono i modelli più appropriati per descrivere la sua peculiare dinamica su quel piano di astrazione. Qui è importante sottolineare che le leggi e i modelli dinamici ricavati ragionando su un dato piano di astrazione non si possono esportare su altri piani né si possono dedurre dai ragionamenti effettuati su altri piani (in tal senso sono irriducibili).


Ricchezza finanziaria e ricchezza reale di una Nazione

Generalmente parlando, le fallacie di composizione sono ragionamenti erronei che derivano dal confondere i diversi livelli olonici (delle singole parti e del tutto) di un sistema complesso  e attribuire al sistema (inteso in senso olistico, come un tutto) le stesse dinamiche che vengono espresse dalle sue parti componenti.


Se si osserva il sistema socioeconomico complesso da una prospettiva olistica, a livello aggregato, di Nazione (si direbbe a livello olonico superiore), la vera ricchezza è data dalla somma del capitale naturale e del capitale artificiale (beni e servizi biofisici), oltre che dal capitale umano (Tobin). Se invece si osserva il sistema complesso da una prospettiva individuale (a livello olonico inferiore), nasce l’illusione che, oltre al capitale naturale e al capitale artificiale, esista anche la “ricchezza finanziaria”, ossia il denaro; la ricchezza che uno Stato, sovrano della propria moneta, crea dal nulla. Questo porta i singoli individui o agenti economici, a credere che, a livello nazionale, la ricchezza finanziaria sia una ricchezza reale. 

Quando si ragiona in termini della massa monetaria che la comunità deve detenere per scambiare beni e servizi, allora si sta osservando il sistema socioeconomico proiettato sul piano di astrazione della “ricchezza finanziaria”; quando invece si ragiona sui beni e servizi biofisici, si passa ad osservare il sistema socioeconomico proiettato sul diverso piano di astrazione della “ricchezza reale”. Siccome, nel ragionare, il passaggio da un piano di astrazione all’altro viene generalmente eseguito in modo inconsapevole, appare naturale mantenere gli stessi modelli e le stesse dinamiche comportamentali e sembra logico sommare la ricchezza finanziaria con la ricchezza reale, per ottenere la ricchezza totale della Nazione. Così facendo, però, si cade nella fallacia della realtà fraintesa e si esegue un’operazione del tutto priva di senso, in quanto i due piani di astrazione (della “ricchezza finanziaria” e della “ricchezza reale”) sono tra loro incommensurabili. 

E’ l’uso millenario della moneta che ci ha indotto nella fallacia della realtà fraintesa, che ci porta a confondere i due piani, incommensurabili, dell’economia finanziaria e dell’economia reale e a credere che il debito / credito (economia finanziaria) e la ricchezza reale (economia reale) siano la stessa cosa. D’altra parte, da sempre, misuriamo le due diverse ricchezze con la stessa unità di misura monetaria e pensiamo che la loro dinamica sia regolata dagli stessi modelli e dalle medesime leggi finanziarie.

Lo scambio della moneta con beni e servizi reali ha senso solo a livello di singoli individui (a livello olonico delle singole parti) impegnati in transazioni economico finanziarie. A quel livello, infatti, i singoli operatori economici attribuiscono un valore al denaro, che usano per regolare gli scambi commerciali. Quando invece si pretende di estendere la stessa dinamica comportamentale anche a livello di comunità, intesa come un’unica entità (a livello olonico del tutto) allora ci troviamo di fronte ad una fallacia di composizione, che deriva dal confondere i due livelli olonici micro e macro (delle singole parti e del tutto) del sistema socioeconomico infinitamente complesso di una Nazione.

L’illusione che la moneta moderna o moneta fiat (priva di alcun valore intrinseco) costituisca una vera “ricchezza finanziaria”, anche a livello aggregato (a livello olonico del tutto), persiste fino a quando l’intera comunità non cerca di convertire la moneta in suo possesso in ulteriore “ricchezza reale” e si accorge di non poterlo fare.  A quel punto, la comunità, come un tutto, si accorge che tutta la moneta di cui dispone, tutta la sua ricchezza finanziaria, non vale nulla. Primo, perché con quella moneta non può comprare nulla, in quanto la comunità è già proprietaria di tutta la ricchezza reale e non ci sono altri beni e servizi da acquistare. Secondo perché non vi è alcun venditore (non c’è nessuno al di fuori dalla comunità, che è il tutto) con il quale scambiare il denaro per acquistare ulteriore ricchezza reale.

Un bambino, che non è ancora condizionato dalle regole della società, sa intuitivamente che c’è una grande differenza tra la moneta che il papà gli regala per comprarsi il gelato e il gelato stesso. Per il bambino, la moneta non ha alcun valore perché non trae piacere dal suo possesso mentre, per lui, il gelato ha molto valore perché prova un grande piacere nel gustarselo. Crescendo, l’innata saggezza del bambino svanisce e l’educazione che gli viene impartita lo inquadra in una serie infinita di convenzioni. A poco a poco si convince che la moneta ha lo stesso valore dei beni reali con i quali può istantaneamente scambiarla, tutte le volte che lo desidera. Alla fine, divenuto ragazzo e poi adulto, crede veramente che, in termini di ricchezza reale, sia sostanzialmente la stessa cosa possedere dei beni reali oppure un importo equivalente di denaro.

A livello aggregato, di contabilità nazionale, succede che, tramite il PIL, si somma la ricchezza finanziaria con la ricchezza reale, per ottenere la ricchezza totale della Nazione.  Anche la contabilità nazionale è caduta vittima della fallacia di composizione, un madornale errore logico, grande quanto un intero Stato.

Da: Cartesian Economics. The Bearing of Physical Science
upon State Stewardship, Henderson, London


La ricchezza finanziaria nel regime della moneta moderna

La moneta moderna è una moneta a corso legale (moneta fiat), priva di valore intrinseco, liberamente fluttuante,  non convertibile, che viene creata dal nulla dallo Stato o da altra Autorità (una banca centrale) che la emette in qualità di monopolista. Il suo valore nominale dipende dalla fiducia nei confronti dell’Autorità emittente.

Soddy ritiene che la “ricchezza finanziaria” della comunità sia una “ricchezza virtuale” il cui valore corrisponde al valore aggregato della ricchezza reale. Per Soddy cioè:

la “ricchezza virtuale” corrisponde al valore dell’insieme di beni e servizi scambiabili a cui la comunità, intesa come un tutto, rinuncia per consentire ai singoli individui, che posseggono la moneta, di domandare e ottenere istantaneamente, da altri individui, i beni e i servizi di cui necessitano, evitando la svantaggiosa pratica del baratto.

Per lo Stato che la emette, la moneta moderna ha la natura di un debito nazionale, di una passività finanziaria (una ricchezza negativa o, come meglio afferma Soddy, una ricchezza virtuale) alla quale corrisponde un’attività finanziaria (un asset) per ogni individuo (cittadino privato o impresa) che ne entra in possesso e che la può scambiare, ogni volta che vuole, con la ricchezza reale, cedendo la moneta ad un altro individuo.

Il potere d’acquisto della moneta, detto anche valore unitario della moneta (VMU), è l’inverso dell’indice dei prezzi (P). Il valore della ricchezza finanziaria della comunità (RF) è soggetta ad oscillazioni perché dipende dalla numerosità della popolazione, dal PIL e dallo stile di vita medio della comunità. Dette oscillazioni sono però più contenute rispetto alla variabilità dell’offerta di moneta, tanto da poter fare l’ipotesi che la ricchezza finanziaria della comunità (RF) sia, con una buona approssimazione, costante. Sotto tale ipotesi si ha che il potere d’acquisto della moneta (VMU) non dipende dalla ricchezza reale bensì dalla ricchezza finanziaria o virtuale (RF), che è una ricchezza negativa, ed è inversamente proporzionale all’aggregato di moneta detenuta (M). Vale la seguente relazione:

VMU = 1 / P = RF / M     (per RV = costante)

Purtroppo, con la consuetudine secolare dello scambio tra moneta e beni reali, i due concetti di ricchezza finanziaria e ricchezza reale, sebbene costruiti su piani di astrazione incommensurabili, si sono talmente sovrapposti e radicati nella testa della gente tanto da creare l’illusione che le due ricchezze siano entrambe vere e sommabili a dare la ricchezza totale della Nazione. Insomma, viviamo tutti intrappolati nell’illusione collettiva che il denaro in nostro possesso sia veramente una ricchezza reale, effettiva che si somma ai beni reali in nostro possesso. D’altra parte, l’esperienza ci insegna che, in qualsiasi momento, possiamo scambiare il denaro con beni e servizi reali! 

Solo nelle economie del passato, quando circolavano le monete d’argento o d’oro, con un valore d’uso intrinseco (moneta merce), la ricchezza monetaria era effettivamente una ricchezza reale. Oggi, invece, tutte le più importanti economie utilizzano la moneta moderna o moneta fiat (priva di valore intrinseco) e, come si è visto, la ricchezza finanziaria è una ricchezza puramente virtuale. Eppure, tutti noi siamo pienamente convinti del contrario; siamo tutti vittime del feticismo monetario, una psicosi di massa che ci convince che il conto che abbiamo in banca sia una forma di ricchezza reale. La verità è che siamo tutti caduti nella fallacia della realtà fraintesa.

In conclusione, è sbagliato pensare che la ricchezza totale di una Nazione sia la somma  della sua ricchezza finanziaria (monetaria) e della sua ricchezza reale (beni e servizi).

Nell’attuale regime della moneta moderna, l’antica pratica del signoraggio, che un tempo andava a beneficio del Signore o del Re, non è stata ereditata dallo Stato moderno sovrano ma, per così dire, è stata usurpata dal sistema delle banche commerciali private che hanno acquisito l’enorme privilegio (legale) di creare il denaro dal nulla, nel momento in cui un loro cliente chiede un prestito.



Conclusioni

La ricchezza finanziaria del Paese è il valore aggregato della massa monetaria che la comunità possiede per permettere ai singoli individui di scambiare agevolmente i beni e i servizi, senza dover ricorrere alla più complicata pratica del baratto. Per Soddy, la ricchezza finanziaria è una ricchezza virtuale che è all’origine di una psicosi collettiva che crea nella gente l’illusione di disporre di una quantità di ricchezza superiore a quella reale che si possiede effettivamente.

La ricchezza finanziaria è una ricchezza negativa, un costo. Infatti, può anche essere vista come il prezzo della rinuncia, da parte dell’intera comunità, a possedere beni e servizi reali, per permettere ai singoli individui di avere sempre a disposizione la moneta fiat da spendere per acquistare molto più immediatamente e semplicemente i beni e servizi di cui necessitano, senza dover sopportare i disagi e gli svantaggi che la pratica del baratto comporta.

La ricchezza finanziaria è una passività finanziaria, essendo l’aggregato della moneta moderna, fiat, che ha la natura di un debito nazionale. E’ il prezzo da pagare per utilizzare, come mezzo di scambio, la moneta fiat (che è priva di valore intrinseco) invece che utilizzare una moneta merce, come l’oro, dotata di proprio valore intrinseco. Del resto, non ha alcun senso utilizzare la moneta merce per svolgere la funzione di scambio che può essere benissimo espletata anche da un’unità di conto priva di valore intrinseco e assolutamente astratta come lo sono, ad esempio, gli impulsi elettronici in un computer.

Il valore della ricchezza finanziaria dipende dalla numerosità della popolazione, dal PIL e dallo stile di vita medio della comunità; è soggetta ad oscillazioni che però sono più contenute rispetto a quelle dell’offerta di moneta.

La dinamica della ricchezza finanziaria obbedisce alle leggi della matematica finanziaria e non alle leggi della termodinamica.

La ricchezza finanziaria può essere considerata alla stregua del signoraggio dato che il suo valore è dato dalla differenza tra il valore nominale e il valore intrinseco della moneta. Nel caso della moneta a corso legale o moneta fiat, che ha un valore intrinseco praticamente nullo, il valore nominale della moneta emessa è esattamente pari alla ricchezza virtuale.

Con l’avvento della moneta moderna o moneta fiat, a corso forzoso, priva di valore intrinseco, ha ripreso vigore il dibattito sul tema della ricchezza finanziaria e, in particolare, sul fatto di poterla o meno sommare alla ricchezza reale, a dare la ricchezza totale di un  Paese. Per alcuni economisti la ricchezza finanziaria è vera ricchezza e dunque la si deve sommare; per altri, come per Soddy, invece, è ricchezza virtuale, e non la si può sommare alla ricchezza reale.

Le banche commerciali private hanno modificato, a loro vantaggio, lo scopo della moneta moderna o moneta a corso legale (fiat), priva di valore intrinseco, trasformando la moneta bancaria da puro mezzo di scambio a debito fruttifero. Insomma, la moneta, che è un bene comune e che dovrebbe essere gestita come tale, viene invece paradossalmente gestita da privati che se ne sono appropriati e che la prestano dietro il pagamento degli interessi.

Per la massima parte, la moneta in circolazione è moneta bancaria e questa è la dimostrazione che il debito non viene mai estinto. La moneta diventa fonte di reddito privato e la sua offerta è soggetta ad ampie oscillazioni periodiche procicliche. La massa monetaria si espande in un periodo di congiuntura economica di espansione quando il settore privato chiede molti prestiti alle banche ma anche quando, in una congiuntura economica di crisi, si verificano numerosi fallimenti. Inoltre la massa monetaria si contrae quando i debiti vengono rimborsati oppure quando, in un periodo di congiuntura economica di crisi il settore privato riduce la domanda di prestiti.


Come si è già detto, la ricchezza finanziaria è il costo della rinuncia, da parte della collettività intesa come un tutto, all’utilità di possedere beni e servizi reali per detenere moneta fiat da scambiare agevolmente, evitando i disagi del baratto. In tal senso, la ricchezza finanziaria o ricchezza virtuale è il costo opportunità dell’impiego della moneta. Tuttavia, il maggior beneficio derivante dal possesso della moneta rispetto al costo rappresentato dai disagi del baratto che si dovrebbero sopportare in assenza della moneta, non giustifica la psicosi collettiva che ha indotto la gente a credere che la moneta fiat non sia un debito e che, addirittura, sia essa stessa fonte di ricchezza.

La moneta fiat dovrebbe essere intesa come uno strumento, come una tecnologia avanzata che attiva i fattori produttivi e facilita la produzione di beni e servizi reali. Qui, la fallacia di composizione ha indotto la gente a confondere la ricchezza finanziaria con la ricchezza reale e a credere erroneamente che la ricchezza finanziaria sia un fattore produttivo in grado di generare profitto. La moneta non deve necessariamente essere un fattore produttivo e, infatti, la moneta fiat non lo è per nulla.

Il vantaggio della moneta fiat, a corso forzoso, è quello di liberare le risorse che altrimenti sarebbero immobilizzate nella moneta merce e, in tal modo, rendere possibile la produzione di una maggiore quantità di beni e servizi reali. Il punto da cogliere è che l’aumento della ricchezza aggregata di una nazione è causato dai processi economici reali, che vengono attivati dalla moneta fiat, ma che non sono la moneta fiat stessa, che è priva di qualsiasi valore  essendo principalmente costituita da impulsi elettronici e, solo in minima parte, da pezzi di carta colorata (banconote).




10     CONFONDE  I PIANI DI ASTRAZIONE MICRO E MACROECONOMICO, TRA LORO INCOMMENSURABILI

L’idea di sottoporre le transazioni tra i singoli operatori economici (a livello microeconomico) ad un’analisi di costi benefici confrontando, al margine, i costi e i benefici per accertarne la convenienza,  è una normale prassi della teoria economica tradizionale. Dato che l’approccio cognitivo degli economisti tradizionali è analitico e lineare, essi ritengono di poter passare dal livello micro al livello macro semplicemente aggregando tutte le microtransazioni, usando il PIL come indicatore sintetico monetario. Inoltre, avendo già verificato, a livello micro, la convenienza di ogni transazione, il loro ragionamento lineare li porta a pensare che, ripetere l’ analisi costi e benefici anche a livello macroeconomico, sia superfluo o quantomeno limitativa della libertà dei singoli individui.

Dal canto loro, gli economisti ecologici, nell’affrontare e risolvere il problema della scala ottimale di una realtà socioeconomica complessa, adottano un approccio cognitivo di sintesi, non lineare. Essi ritengono che ogni politica economica di stimolo alla crescita debba essere valutata individuando la scala globale dell’economia attraverso un confronto, al margine, tra i costi e i benefici a livello macroeconomico. Inoltre, dato che i due piani di astrazione, micro e macro, non sono tra loro confrontabili, essi ritengono che tale condizione di ottimo non si possa in alcun modo derivare da analoghi ragionamenti effettuati a livello microeconomico, esaminando le transazioni tra i singoli operatori economici.


Per ragionare sulla scala dell’economia a livello globale, occorre costruire le funzioni dei costi aggregati e dei benefici aggregati e confrontarli. Per quanto riguarda la funzione aggregata dei benefici, o utilità marginale (MB), al crescere della scala dell’economia (PIL),  essa viene costruita a partire dal consumo delle merci e dei servizi prodotti. All’aumentare del PIL, la funzione MB decresce monotonamente perché, come esseri razionali, tendiamo a soddisfare per prime le nostre necessità più impellenti. Questa legge è fondamentale in economia ed è nota anche come la legge dei rendimenti o dei ritorni decrescenti. Per quanto riguarda la funzione aggregata dei costi, o disutilità marginale (MC), al crescere della scala dell’economia (PIL), la funzione MC cresce anche a causa dei costi esterni (esternalità negative), dei sacrifici sociali e ambientali, necessari per far crescere la produzione e i consumi (sacrificio del tempo libero, esaurimento delle risorse non rinnovabili, inquinamento, distruzione ambientale, congestione, ecc.).

Se ad una data scala dell’economia, i benefici marginali aggregati sono maggiori dei costi marginali aggregati allora siamo ancora nella regione della crescita economica. Se invece, sempre al margine, i benefici sociali aggregati sono uguali  ai costi sociali aggregati allora siamo giunti alla scala ottimale dell’economia; infine, se troviamo che i benefici sociali aggregati sono inferiori ai costi sociali aggregati allora siamo entrati nella regione della crescita antieconomica.

Per gli economisti ecologici, il libero mercato non è in grado di individuare le dimensioni ottimali assolute dell’economia aggregata in quanto il relativo sistema dei prezzi funziona in base ai prezzi relativi. Inoltre, a livello micro, delle singole transazioni individuali, i costi e i benefici non riflettono pienamente i costi e i benefici sociali, a causa della presenza delle esternalità il cui costo aumenta con il progressivo avvicinamento del sottosistema socioeconomico ai limiti dell’ambiente e si passa da un mondo scarso di capitale artificiale ad un mondo scarso di capitale naturale. Secondo gli economisti ecologici, il problema della scala ottimale dell’economia globale deve essere risolto con una specifica politica economica, che si deve basare su considerazioni etiche.

Gli economisti tradizionali, quando si accingono a predisporre politiche economiche per promuovere la crescita aggregata oltre il livello stabilito dai liberi mercati, eseguono un’analisi costi benefici, a livello macroeconomico, assumendo implicitamente che i benefici sono superiori ai costi. A parte la discutibile correttezza di un tale assunto, si deve comunque riconoscere che è legittimo il confronto che essi fanno tra i costi e i benefici, a livello macroeconomico.

Quando, in un sistema socioeconomico complesso, si confondono i diversi livelli olonici, del tutto e delle parti, e si pensa di estendere al sistema, inteso come un tutto (a livello macroeconomico),  le stesse leggi e gli stessi modelli di comportamento che sono stati individuati ragionando a livello delle transazioni tra i singoli individui (a livello microeconomico), allora si cade nella fallacia di composizione


La teoria dei giochi e il pensiero sistemico sono ricchi di esempi che mostrano il conflitto esistente tra la razionalità a livello micro e quella a livello macro, di un sistema complesso. Ragionamenti e modelli di comportamento che sono ritenuti perfettamente sensati e razionali, a livello delle transazioni tra i singoli agenti (a livello microeconomico), appaiono assurdi e irrazionali quando vengono estesi a livello di comunità (a livello macroeconomico).  Tali considerazioni portano a ribadire l’assoluta necessità di effettuare il confronto tra costi e benefici anche a livello macro. 

Ecco, di seguito, alcuni esempi di situazioni in cui si cade nella fallacia della composizione a causa della confusione tra i diversi livelli olonici del sistema complesso.


LA TRAGEDIA DELLE RISORSE COLLETTIVE 

L’acqua potabile, i pascoli, le foreste, il terreno fertile di superficie (humus), le zone di pesca oceaniche, i combustibili fossili, ossia gran parte del capitale naturale non rinnovabile e dei servizi ecosistemici di interesse, sono risorse collettive, rivali. Data la loro scarsità, esse dovrebbero essere più correttamente gestite come beni comuni, ossia come risorse collettive ad accesso regolamentato (common).

Oggi, invece, i singoli individui, gruppi, aziende, interessati allo sfruttamento delle scarse risorse collettive rivali, tendono a gestirle, quasi universalmente, come risorse private e ne fanno inesorabilmente oggetto di accaparramento e predazione, fino al loro totale esaurimento.

Le sfruttano liberamente, con l’obiettivo di perseguire in modo prioritario i loro interessi egoistici. A causa del loro vergognoso comportamento tali individui vengono anche chiamati  “appropriatori”. All’inizio, quando la risorsa collettiva rivale è ancora poco sfruttata, gli “appropriatori” esercitano la loro attività con rendimenti crescenti e traggono notevoli benefici personali, senza però danneggiare la collettività. Purtroppo, con il procedere dello sfruttamento, diventa sempre più evidente il conflitto tra l’interesse dei singoli individui e quello della collettività. La risorsa viene sfruttata oltre il suo reddito sostenibile e si esaurisce progressivamente. A questo punto, gli “appropriatori” si rendono conto che i rendimenti della loro attività iniziano a diminuire e di conseguenza, operando in assenza di regole, intensificano ulteriormente i loro sforzi predatori. Il risultato è un esaurimento ancora più rapido della risorsa e l’anticipo del collasso delle loro attività. 

Questa dinamica, inizialmente portata all’attenzione del pubblico da Garret Hardin e successivamente approfondita teoricamente dal premio Nobel Elinor Ostrom, è nota come la “tragedia delle risorse collettive” ed è uno degli archetipi del pensiero sistemico, dato che è un esempio di comportamento molto diffuso, nei più disparati ambiti.

La tragedia delle risorse collettive evidenzia il conflitto sistemico esistente nello sfruttamento comune di una risorsa, tra il comportamento del singolo individuo e quello della collettività. Al livello micro, del singolo individuo, si ritiene perfettamente razionale il comportamento di chi cerca di sfruttare al massimo la risorsa per perseguire i propri interessi individuali. Tuttavia, quello stesso comportamento, se viene esteso a livello della comunità, diventa assurdo, irrazionale e molto pericoloso perché, in breve tempo, porta la risorsa comune al suo completo esaurimento, con la tragica conseguenza del collasso di tutte le attività che si sono sviluppate attorno a quel bene comune (la tragedia dei beni comuni). 

Per gestire in modo sostenibile le risorse comuni occorre un cambiamento di paradigma. Servono politiche economiche che valorizzino e gestiscano correttamente le risorse collettive; prima fra tutte, il lavoro umano. Si deve passare al paradigma dell’ecologia integrale, dove la piena occupazione diventa il principale obiettivo politico perché considera la dignità della persona un valore fondamentale, da difendere con la massima priorità.


In un contesto di conflitto tra razionalità a livello micro e razionalità a livello macro, tra individuo e comunità, tra privato e pubblico, i progressi della “tecnologia della produttività”, tanto invocati dagli economisti tradizionali, non sono di alcun aiuto, anzi, sono dannosi perché accelerano lo sfruttamento delle risorse naturali non rinnovabili e anticipano il collasso del sistema economico globale.

Nel paradigma dell’ecologia integrale, invece, è la “tecnologia dell’efficienza” posta al servizio dell’economia umana, ad assumere un ruolo di rilievo. A differenza della tecnologia della produttività, la tecnologia dell’efficienza tende a conservare il capitale naturale a bassa entropia, ossia le risorse naturali utili all’economia umana e impiega più capitale umano (specialmente in termini di relazioni umane e creatività) per conseguire un’economia sostenibile, rispettosa dell’uomo e dell’ambiente.

IL PARADOSSO DELLA PARSIMONIA 

Un altro esempio di comportamento perfettamente sensato a livello di transazioni economiche tra i singoli individui (livello microeconomico) che diventa del tutto irrazionale e assurdo a livello collettivo (livello macroeconomico) è il paradosso della parsimonia, già individuato da Keynes.

Quando, in risposta alle crescenti preoccupazioni di una recessione economica, i singoli individui, anzichè spendere e aumentare i consumi, tendono istintivamente a risparmiare, la recessione può addirittura peggiorare. Inoltre, a livello della comunità, intesa come un tutto, si nota che il tasso di risparmio medio, invece di aumentare, tende a rimanere costante. 

La logica che sottostà al paradosso della parsimonia (o paradosso della frugalità) è la seguente. Quando, in un periodo di crisi economica, la gente decide di risparmiare gran parte del suo reddito per tempi migliori, riduce i propri consumi e le spese e mette il denaro risparmiato in banca. Con il crollo dei consumi e quindi della domanda aggregata, l’economia va in crisi; crolla la produzione e le aziende sono costrette a licenziare molti dei loro dipendenti; aumenta le disoccupazione e si riducono i salari. Molte aziende chiudono. I lavoratori licenziati non hanno reddito da spendere. Il potere d’acquisto dei lavoratori diminuisce, quindi i consumi si riducono ulteriormente e altre imprese sono costrette a chiudere. Nel corso del tempo, l’economia si avvita in un circolo vizioso, la recessione si aggrava sempre di più e la gente, impaurita, invece di spendere, tende a risparmiare sempre di più.

Con l’aggravarsi della crisi, invece di aumentare, il tasso medio di risparmio della collettività tende a rimanere mediamente costante. Questo curioso fenomeno si verifica perché, mentre i ricchi possono risparmiare grandi quantità di denaro, le persone che appartengono alle classi inferiori risparmiano sempre di meno dato che, con il loro reddito, fanno sempre più fatica a tirare alla fine del mese. Il risultato è che, mediamente, il tasso di risparmio rimane costante.

In tempi di crisi, mentre a livello dei singoli individui (a livello micro) la decisione di risparmiare risulta del tutto razionale, a livello della comunità, intesa come un tutto (a livello macro), tale decisione si rivela essere estremamente dannosa. Il conflitto esistente tra la razionalità a livello micro e la razionalità a livello macro va sotto il nome di  paradosso della parsimonia o paradosso della frugalità.

Consumi, risparmi e investimenti

Il risparmio è strettamente legato all'investimento. Se, con l’aumento della propensione al risparmio, il denaro in eccesso che la gente mette in banca, anzichè rimanere infruttuoso, venisse in parte impiegato per generare investimenti in infrastrutture, in impianti e macchinari, allora si promuoverebbe la produzione e si darebbe impulso alla crescita economica.

In sostanza, in tempi di crisi, la maggiore propensione al risparmio comporta effetti contrastanti:

a)    nel breve periodo, il risparmio comporta la riduzione della domanda aggregata e quindi il crollo della produzione, con un aumento della disoccupazione e la riduzione dei salari (redditi);
b)    nel lungo periodo, il risparmio comporta la costituzione di fondi per generare investimenti in capitale artificiale che danno impulso allo sviluppo economico, con aumento della produzione e conseguente crescita dell’occupazione e dei salari.

CLD del paradosso della parsimonia.


LA RETORICA DEL “BUON PADRE DI FAMIGLIA”

Con la retorica del “buon padre di famiglia” si intende sottolineare che, nelle interrelazioni socioeconomiche tra i singoli individui (a livello microeconomico),  ogni individuo deve assumere un comportamento parsimonioso, diligente e prudente, prendersi cura della propria famiglia e farsi carico delle responsabilità del suo agire.

La teoria economica tradizionale, con il suo approccio analitico e lineare, cade nella fallacia di composizione ed estende  in modo  ingiustificato, anche a livello macroeconomico, la retorica del “buon padre di famiglia”, valida solo a livello microeconomico. Così, in modo fallacie, ritiene che il comportamento parsimonioso sia da considerarsi virtuoso anche per uno Stato. Insomma, la teoria economica tradizionale, in modo ingenuo e priva di strumenti per analizzare la realtà complessa, confonde i due livelli olonici (micro e macro) del sistema socioeconomico complesso e ritiene valida la seguente analogia:

come il “buon padre di famiglia” agisce in modo parsimonioso e spende meno di quanto percepisce come reddito, così anche lo Stato deve amministrare il suo bilancio pubblico spendendo meno di quanto preleva in tasse.

Lo Stato deve quindi chiudere il proprio bilancio pubblico sempre in avanzo; deve cioè limitare la spesa pubblica in modo da non eccedere mai il prelievo fiscale. L’analogia sembra chiara e logica, mentre invece è fallace, assurda e ingannevole. Per comprendere meglio, può essere utile fare il seguente esempio della stessa fallacia di composizione, ambientata però in un altro contesto.

“Allo stadio, durante una partita di calcio, se un tifoso si alza in piedi, gode di una visibilità migliore. Di conseguenza, se tutti si alzano in piedi, tutti avranno una visibilità migliore”.

La fallacia del ragionamento è della massima evidenza e, se ci riflettete, è lo stesso ragionamento erroneo nascosto sotto il mito del “buon padre di famiglia”:

“un cittadino, è virtuoso se spende meno del suo reddito. Quindi lo Stato (che è l’insieme di tutti i cittadini) è virtuoso se spende meno di quanto preleva attraverso le tasse.”


La retorica del “buon padre di famiglia” è una delle più subdole fallacie dell’economia tradizionale neoliberista. E’ soprattutto una fallacia di composizione perchè l’argomentazione erronea deriva dal confondere, in un sistema complesso, le parti con il tutto e credere che le proprietà di un’entità complessa, presa come un tutto, siano direttamente ricavabili come somma delle proprietà delle sue parti, prese isolatamente. L’idea erronea è quella di credere che lo Stato (un’entità di livello globale) sia virtuoso se assume lo stesso comportamento virtuoso delle singole aziende e cittadini (delle sue parti componenti). Un mito da sfatare perché la sua osservanza comporta risultati veramente devastanti per l’economia di un Paese. 


In una realtà complessa i due livelli olonici: delle singole parti e del tutto, presentano dinamiche che sono incommensurabili e irriducibili e ogni tentativo di derivare un comportamento dall’altro conduce alla fallacia di composizione o a quella opposta, di divisione.

Il comportamento parsimonioso del “buon padre di famiglia”, che è certamente da adottare nelle interazioni socioeconomiche tra i singoli individui e imprese (al livello delle singole parti), diventa del tutto irrazionale, assurdo e devastante se viene esteso anche all’intero sistema socioeconomico nazionale. A meno che non voglia distruggere la propria economia, uno Stato non può adottare lo stesso comportamento parsimonioso del “buon padre di famiglia”.


Un' enorme fallacia di composizione giustifica le politiche di austerità

Il paradigma tecnocratico neoliberista usa abbondantemente la retorica del “buon padre di famiglia” che fa molta presa sulla gente, ahimè, sprovveduta. E’ una retorica continuamente riproposta dalla classe politico economica dirigente e diffusa dai media, al loro servizio, per convincere il pubblico ad accettare come virtuose le politiche economiche procicliche di austerità, tanto auspicate dai neoliberisti ma così dannose per l’economia di un Paese, nel suo complesso.

In una congiuntura economica di  crisi è doveroso ridurre il prelievo fiscale e la retorica del “buon padre di famiglia” suggerisce di ridurre anche la spesa pubblica (questo è il significato di politica prociclica). Però è proprio nei momenti di crisi economica, che lo Stato deve attuare le politiche economiche opposte, quelle anticicliche. Deve diminuire le tasse e, contemporaneamente, aumentare la spesa pubblica, per venire incontro alle famiglie e alle imprese che, a causa della penuria di denaro, si trovano già costrette a ridurre i consumi e gli investimenti.

Lo Stato che si comporta come un “buon padre di famiglia” è quello che attua le politiche di austerità ed interviene con le famose riforme strutturali, che altro non sono che tagli alla spesa pubblica, spesso indiscriminati e massicci, che colpiscono principalmente i settori sociali strategici, quali: istruzione, sanità, giustizia, infrastrutture, sussidi, ecc. e deprimono ulteriormente un’economia già asfittica.

Insomma, è stata utilizzata la retorica del “buon padre di famiglia”, che si basa su una madornale fallacia di composizione, per imporre agli Stati dell’eurozona, con l’inganno, assurde e dannose politiche di austerità.


Dipendenza dalle esportazioni

Lo Stato che si comporta come un “buon padre di famiglia” non agisce in modo premuroso, equo e responsabile, nei confronti dei suoi cittadini; non è affatto uno Stato virtuoso non fa gli interessi del Paese ma distrugge la sua ricchezza finanziaria e reale e lo obbliga, per soddisfare le proprie necessità finanziarie, a rivolgersi al settore estero e a dipendere dai suoi surplus.

Il settore privato può fare pieno affidamento unicamente sul suo settore governativo,  che se lo Stato è sovrano, non può mai fallire ed è sempre pronto ad erogare tutta la ricchezza finanziaria che gli necessita, fino a saturare la sua capacità produttiva.


Essere totalmente ed esclusivamente dipendenti dalle esportazioni è una strategia commerciale rischiosa. Il settore estero non è affidabile perché per un Paese è impossibile essere sicuro di poter chiudere la propria contabilità nazionale con una bilancia commerciale con l’estero in perenne surplus. Anche gli altri Paesi vorrebbero fare lo stesso ma è chiaramente impossibile che tutti i Paesi del mondo possano contemporaneamente avere una bilancia commerciale con l’estero in surplus. E’ un errore logico ed è una fallacia di composizione crederlo possibile. In economia, se uno o più Paesi chiudono in surplus, allora vuol dire che altri Paesi devono logicamente chiudere in deficit. 


In un commercio internazionale equo e reciprocamente vantaggioso, che offre pari opportunità a tutti i partner commerciali, la bilancia commerciale con l’estero si dovrebbe perennemente chiudere in parità. Tutt’al più, si potrebbe concordare di alternare anni in surplus con anni in deficit, bilanciando in modo che, nel tempo, tutti i Paesi presentino una bilancia commerciale con l’estero mediamente in parità. La logica mercantilista, che pretende di chiudere la contabilità nazionale con la bilancia commerciale con l’estero in perenne surplus, è chiaramente illogica e  fallace e può essere sostenuta ripetutamente negli anni solo da un Paese prepotente, prevaricatore, che non si cura delle condizioni (spesso coloniali) che impone al Paese partner commerciale.

Dipendere totalmente ed esclusivamente dalle esportazioni è una strategia commerciale dannosa per il Paese che si deve impegnare in una perenne politica mercantilistica che lo obbliga a trovarsi sempre in condizioni di massima competitività con tutti gli altri Paesi partner commerciali. Ciò significa che deve costantemente minimizzare i costi di produzione adottando politiche di massima austerità: deflazione salariale, abbattimento della domanda interna e ampio ricorso all’indebitamento privato.


La fallacia è molteplice

La retorica del “buon padre di famiglia” è un mito da demolire, perché è solo una fallacia e anche molteplice. Per giustificare la loro posizione ideologica di uno Stato che è virtuoso quando la spesa pubblica è inferiore agli introiti fiscali, i neoliberisti propagandano solo l’immagine di un padre parsimonioso, oculato, che spende meno di quanto incassa.

In realtà, la retorica del “buon padre di famiglia”, presume anche altre qualità. Ad esempio, un “buon padre di famiglia” si interessa al buon andamento della famiglia e ne pianifica le spese. E’ proprio nei momenti di crisi che, per una famiglia accorta, è importante pianificare le spese; se non altro per evitare di trovarsi ancora lontano dalla fine del mese quando finisce lo stipendio. Certo, in quei momenti, essere oculati ed austeri è importante ma lo è anche essere dei bravi pianificatori. Al neoliberista, però, interessa solamente il comportamento oculato ed evita accuratamente di parlare delle capacità di pianificazione, perché non vuole che lo Stato si intrometta nelle questioni di economia.

Un “buon padre di famiglia” ci tiene all’educazione dei figli e, se può, li segue nel corso dei loro studi ed interviene quando incontrano delle difficoltà. Non si limita solo a comprare loro lo zaino, i libri e la cancelleria, per poi abbandonarli al loro destino. Però, anche questo è un aspetto del “buon padre di famiglia” che i neoliberisti tendono a nascondere. Ad essi, infatti, interessa solo l’immediato profitto e sono del tutto indifferenti agli aspetti umani e sociali dell’economia.

La narrativa neoliberista del “buon padre di famiglia” risulta pertanto ripetutamente fallace. Non è solo una fallacia di composizione ma è anche una fallacia dell'evidenza soppressa perchè vengono omesse molte importanti premesse per far apparire come vera una conclusione che è sostanzialmente falsa. Se dette premesse venissero palesate, si comprenderebbe immediatamente la falsità della conclusione.

Insomma, la verità è che uno Stato virtuoso non deve mai comportarsi come un “buon padre di famiglia”.

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