LE FALLACIE DELL’ECONOMIA TRADIZIONALE – Parte 4
Prosegue l’esame delle
principali fallacie che interessano la teoria economica tradizionale. Sono
essenzialmente fallacie di composizione che derivano dall’approccio cognitivo
analitico, lineare, riduzionistico, che è poco appropriato per affrontare i
problemi di una scienza sociale, complessa, quale è l’economia.
Il merito di aver
criticato in modo costruttivo, acuto e profondo, i concetti sui quali si fonda
la teoria economica tradizionale, neoclassica e neoliberista, va attribuito
soprattutto all’economia ecologica (che non è la green economy né tutte le
altre economie colorate, le quali sono solo fallaci derivazioni della teoria
economica tradizionale).
L’economia ecologica ha
tutt’altra connotazione. E’ un’economia che merita di essere conosciuta dal
vasto pubblico. E’ un’economia umana, un’economia del benessere sociale,
attenta soprattutto ai bisogni della gente. E’ una scienza interdisciplinare e
postnormale che ha tutti gli attributi per diventare il nuovo paradigma
socioeconomico dell’ecologia integrale; l’auspicato cambiamento verso un nuovo
stile di vita, prospero, sostenibile e giusto, fondato in primo luogo sul
rispetto degli esseri umani e della natura.
In questa quarta parte viene esaminata la fallacia che deriva dall’uso del PIL come strumento indicatore di benessere sociale, quando invece è un mero indicatore di attività economica. Si esamina inoltre la fallacia della dottrina mercantilistica, dalla quale emerge l’impossibilità della sua generalizzazione a tutti i Paesi del mondo.
In questa quarta parte viene esaminata la fallacia che deriva dall’uso del PIL come strumento indicatore di benessere sociale, quando invece è un mero indicatore di attività economica. Si esamina inoltre la fallacia della dottrina mercantilistica, dalla quale emerge l’impossibilità della sua generalizzazione a tutti i Paesi del mondo.
7 USA
IL PIL COME INDICATORE DI BENESSERE
Confondere
la crescita con lo sviluppo
Gli economisti
tradizionali e la classe politica dirigente, sedotti dal dogma neoclassico
della crescita economica biofisica illimitata, tendono a confondere i due
concetti: di crescita e di sviluppo, e propugnano il concetto che la crescita
economica sia lo sviluppo sostenibile, chiamandola “crescita sostenibile”. Un
ossimoro che viene propagandato con tanto impegno e che sta facendo crescere
le dimensioni dell’economia globale ben oltre i limiti ottimali.
Gli economisti
tradizionali sostengono che il flusso di beni e servizi prodotto dipende dall’efficienza
produttiva del capitale artificiale. Se è così, allora occorre chiedersi, alla
scala attuale dell’economia mondiale, qual è il benessere marginale per unità
di capitale artificiale aggiunto e qual è il conseguente costo marginale dovuto
alla diminuzione del capitale naturale e alla degradazione dei servizi
ecosistemici che sono stati sacrificati per produrre quel capitale artificiale
in più.
Purtroppo non sappiamo
quali siano le attuali dimensioni del sistema socio–economico globale, in
rapporto alle dimensioni dell’ecosistema che lo comprende in quanto non
disponiamo ancora di indicatori della crescita aggregata capaci di fornirci,
separatamente, delle buone stime sia delle funzioni dei benefici aggregati sia delle funzioni dei costi aggregati.
Di fatto, gli economisti
tradizionali valutano l’evoluzione del benessere di un Paese, misurando
l’andamento del Prodotto Interno Lordo (PIL), nel corso del tempo. Per inciso,
secondo una delle definizioni, il PIL è il valore di tutti i beni e servizi
finali prodotti nell’economia di un Paese, in un dato periodo di tempo (anno). Pertanto,
è un indice che si concentra sul valore della produzione e del consumo di merci
e servizi, e non dice nulla sul modo in cui, da un tale aumento di produzione, possa derivare un miglioramento del benessere umano.
Nel 1933, l’allora
presidente USA, Franklin Delano Roosevelt, affidò all’economista Simon
Kuznets il compito di creare un bilancio del reddito nazionale e, nel 1934, Kuznets presentò il suo lavoro al congresso
degli Stati Uniti. In quell’occasione egli presentò il suo concetto di
PIL, come indice macroeconomico (vedi “Per quanto ancora dobbiamo usare il PIL” ), precisando però che:
... il benessere di una nazione può a mala pena essere desunto dalla misurazione del reddito nazionale.
Pertanto, come precisò il suo inventore, il PIL non deve essere considerato un indicatore di benessere ma solo un indicatore di attività economica. Purtroppo, a causa dell’elevata correlazione diretta, inizialmente esistente, tra produzione economica e benessere umano, a poco a poco, crebbe l’erronea convinzione che la crescita dell’attività economica e la crescita del benessere fossero la stessa cosa. Oggi ne siamo così convinti che pensiamo, a livello globale, che l’unica politica economica possibile sia quella della crescita economica biofisica illimitata, misurata dal PIL.
Una corretta misura del
benessere umano deve anche prendere in considerazione i servizi ecosistemici
gratuitamente offerti dalla natura e la capacità che essa ha di rigenerare le
risorse naturali. Questi però, sono concetti che appartengono ad un ordine di
pensiero superiore, ad un’idea più complessa ed evoluta di progresso, che
trascende la tradizionale misura della produzione industriale, effettuata con
il PIL. Come ebbe a dire Irving Fisher: "il benessere umano è una funzione psichica che dipende dalla capacità di
godersi la vita, avendo a disposizione i beni e i servizi che l’economia
ci offre".
L’economia umana è una realtà sistemica enormemente complessa e una delle più importanti fallacie della realtà fraintesa che affliggono la teoria economica tradizionale riguarda proprio il fatto di credere di poter misurare un’entità così complessa come il sistema socioeconomico umano, con un semplice indicatore sintetico, numerico, monetario (il PIL), ottenuto ragionando unicamente sul piano di astrazione della mera attività economica e poi pensare di estenderne la validità anche per misurare altre caratteristiche del sistema socioeconomico, come il benessere sociale, che attengono a piani di astrazione diversi e tra loro incommensurabili.
Il risultato perverso che si ottiene con l'impiego del PIL è quello di generare tutta una serie di problemi, che derivano
dall’imporre limiti quantitativi, numerici, per misurare variabili
qualitative tra loro incommensurabili.
Il
MEW, l’ ISEW e la critica del PIL come indicatore di benessere
Nel 1972, Nordhaus e
Tobin, due economisti USA, condussero uno studio per accertare se il PIL fosse
un buon indicatore del benessere, così da poter validare ogni politica
economica che fosse basata sulla crescita del PIL. A tal fine, i due studiosi
elaborarono un indicatore del benessere economico: il MEW – Measure of Economic
Welfare, così costruito:
MEW = PIL + Valore tempo libero + Valore
lavoro non pagato – Danni ambientali
e ne verificarono la
correlazione con il PIL, su un periodo di tempo compreso tra il 1929 ed il
1965.
Lo studio dimostrò che,
negli USA, esisteva una buona correlazione positiva tra PIL e MEW, anche se il
MEW tendeva a crescere ad un tasso inferiore rispetto al PIL (ad un aumento del
6% del PIL corrispondeva solo un aumento del 4% del MEW). Rassicurati di un tale
esito, gli economisti tradizionali si dimenticarono presto del MEW e
continuarono a basare le loro politiche economiche sul PIL.
Nel 1989, J. Cobb, C. Cobb e H. Daly decisero di
riesaminare lo studio che Nordhaus e Tobin avevano condotto circa venti anni
prima. A tal fine, essi considerarono gli stessi dati ma decisero di
suddividerli in due periodi di tempo che vennero analizzarli separatamente: un primo periodo, di 17 anni, dal 1929 al 1946, e un secondo periodo, di 18 anni, dal 1947 al 1965. Quando analizzarono il secondo periodo
si accorsero che la correlazione tra PIL e MEW era drasticamente peggiorata (ad
un aumento del 6% del PIL corrispondeva solo un aumento del 1% del MEW).
Insomma, il nuovo studio aveva dimostrato che, negli USA, il PIL stava
progressivamente perdendo di affidabilità e autorevolezza come indicatore sul
quale basare ogni politica economica che puntasse a migliorare il benessere.
L’
ISEW: un indicatore dell’effettivo benessere economico
Sebbene il MEW fosse un indicatore di benessere
migliore del PIL, non era privo di difetti e dovette essere sottoposto ad alcune
correzioni; ad esempio, il tempo libero era stato introdotto con un peso
sproporzionato mentre altri fattori come, ad esempio, i costi ambientali e i
cambiamenti nella distribuzione del reddito non erano neppure stati presi in
considerazione.
Fu così che, nel 1989,
J. Cobb, C. Cobb e Daly, allo scopo di migliorare la misura del livello di
benessere economico sostenibile di una società, decisero di apportare diversi miglioramenti al MEW ed
elaborarono l’ indice di benessere
economico sostenibile (ISEW – Index of Sustainable Economic Welfare). L’
ISEW è una correzione del MEW che tiene conto di una più ampia gamma di effetti
dannosi della crescita economica ma esclude il valore della spesa pubblica per
la difesa:
ISEW = Consumi privati + Spesa
pubblica – Difesa + Valore lavoro non pagato – Danni ambientali
Pur basandosi su alcune
premesse arbitrarie, che comunque non sono certamente più discutibili di quelle
sulle quali si basa il PIL, l’ISEW venne proposto come un indice sintetico,
numerico, monetario, alternativo al PIL, idoneo a misurare sia l’ambiente
biofisico che il benessere sociale e culturale di una società. In particolare,
l’ISEW considera una varietà di fattori sociali e ambientali, come:
-
la
crescente disuguaglianza nella distribuzione del reddito
-
la
crescente scarsità di capitale naturale
-
il contributo delle attività non monetizzate
-
il danno ecologico, di qualsiasi tipo
-
l’aumento
del debito estero
- l’accumulo delle spese difensive, considerate come costi (incidenti sul
lavoro, inquinamento, incidenti del traffico, rumori, problemi di salute dovuti allo smog,
tabagismo, alcolismo, droghe, ecc.)
L’ISEW
è stato applicato alle economie di diversi Paesi quali: USA, Germania, Gran
Bretagna, Austria, Svezia e Olanda. I risultati degli studi eseguiti presentano
una notevole similitudine tra i vari Paesi e indicano che il Benessere
Economico Sostenibile (ISEW) cresce più o meno con lo stesso ritmo del Prodotto
Interno Lordo (PIL) fino a circa la metà degli anni ’70, inizi degli anni ’80;
successivamente si stabilizza o addirittura diminuisce, mentre il PIL continua
a crescere.
Con particolare riferimento agli USA, il confronto
tra il PIL e l’ISEW mostra che, fino
agli anni ’70, i due indicatori sono ben correlati e crescono entrambi. Poi, a
partire dagli anni ’70, il PIL continua a crescere mentre l’ISEW rimane praticamente
costante fino alla fine degli anni ’80, per poi iniziare un lento declino.
In sostanza, gli studi
condotti in modo prudente, senza tener conto dei costi dovuti ai prodotti
nocivi come l’alcol e il tabacco né dei rendimenti decrescenti del reddito
marginale, mostrano che, a partire dall’inizio degli anni ’70, negli USA, la crescita del
PIL non si riflette in un’analoga crescita del benessere economico della
Nazione.
USA, PIL e ISEW procapite
(da "Uneconomic
growth in theory and in fact”, H.
Daly)
Nel tempo, all' ISEW furono affiancati altri indicatori, proposti per approssimare meglio l'andamento del benessere in base ai dati della contabilità nazionale. Vennero progressivamente introdotti altri fattori, ignorati sia dal MEW sia dall' ISEW, come ad esempio:
a)
l’effetto
della crescita del PIL di un singolo Paese sull’ecosistema globale e sul
benessere a livello internazionale
b)
il
contributo negativo di prodotti da scoraggiare quali: l’alcol, il tabacco, la
droga, ecc.
c)
l’utilità
marginale decrescente del reddito aggregato risultava sempre più evidente il
peggioramento della correlazione con il PIL.
In Italia, i dati empirici mostrano che, fino alla fine degli anni ’80, il PIL e l’ SWI (una variante dell’ ISEW) crescono allo stesso tasso e, in pratica, coincidono. Poi, dall’inizio degli anni ’90 fino al 2011, l’ISEW rimane pressochè costante mentre il PIL continua a crescere. Infine, dal 2011 in poi, il PIL tende a diminuire per poi stabilizzarsi mentre l‘ ISEW continua a diminuire.
Italia,
PIL e SWI procapite
(Fonte: Sapienza University of Rome)
L’Indicatore di
Progresso Genuino (GPI)
L’Indicatore di
Progresso Genuino o autentico (Genuine Progress Indicator – GPI) è stato
proposto, nel 1994, da un gruppo di ricercatori ed economisti, tra
cui Herman Daly, John Cobb e Philip Lawn. Il GPI deriva dall' ISEW e si propone come un
indicatore del benessere economico di una nazione.
Alla pari del PIL, il GPI è un indicatore sintetico, numerico, monetario che amplia il quadro contabile
convenzionale, indicato dal PIL, ad includere molte altre variabili, di
notevole importanza per la misurazione di un “autentico” progresso. Oltre alla
produzione economica, misurata in modo convenzionale, il GPI considera più di una ventina di altri contributi economici, provenienti dalla famiglia,
dalla società e dall’ambiente naturale, che il PIL trascura. Il GPI permette inoltre di distinguere le transazioni economiche che aumentano il benessere da quelle che lo
diminuiscono e le integra per costruire la curva aggregata dei benefici e la
curva aggregata dei costi dell'attività economica, che vengono poi confrontate. Il GPI, modifica alcuni elementi del PIL (come la distribuzione del reddito), somma diversi contributi, ignorati dal PIL (come il lavoro domestico e il volontariato), e sottrae le spese dannose (come l’inquinamento e i costi della
criminalità) e le spese difensive.
Indicatore
di Progresso Genuino (da GNHUSA)
Dato che sia il PIL che il GPI
sono entrambi misurati in termini monetari, si ha il vantaggio di poterli confrontare
sulla stessa scala. Dopo aver calcolato il GPI e il PIL per molti Paesi, tra i quali: Canada, Paesi
Bassi, Austria, Inghilterra, Svezia e Germania), si sono confrontati i due indicatori. I risultati hanno
nuovamente confermato che, sia negli USA che nella UE, al crescere del PIL, il
GPI aumenta solo fino agli inizi degli anni '70, per poi iniziare a decrescere.
Dal grafico riportato qui sotto, si evince che, nonostante la forte crescita del PIL, il progresso misurato dal GPI è sostanzialmente fermo dagli anni '70.
Dal grafico riportato qui sotto, si evince che, nonostante la forte crescita del PIL, il progresso misurato dal GPI è sostanzialmente fermo dagli anni '70.
USA PIL – GPI
(Redefining Progress)
Il GPI si prefigge lo scopo di
fornire ai cittadini e ai responsabili politici uno strumento più accurato per
la misura del benessere generale dell'economia e di come la nostra condizione
nazionale stia cambiando nel tempo.
Mentre il PIL pro capite
è più che raddoppiato, a partire dalla metà del XX secolo ad oggi, il GPI mostra
un andamento molto più complesso. E’ aumentato negli anni '50 e '60, per poi
bloccarsi a partire dagli anni ’70. In generale si nota che il GPI procapite è
progressivamente calato, rispetto al PIL pro capite. La divergenza tra PIL e GPI passa dall'1% negli anni
'70 al 2% negli anni '80 fino al 6% negli anni '90. Questa ampia e
crescente divergenza è un segnale di allarme di cui dobbiamo essere ben consapevoli. Ci avvisa che il nostro sottosistema economico globale fa sempre più
fatica a crescere e attualmente si trova vincolato su una traiettoria che, nell’immediato futuro, ci imporrà costi sempre crescenti, all'avvicinarsi dei limiti
imposti dall’ecosistema globale.
Il GPI ha il merito di
rivelarci che la nostra attuale (debole) crescita economica mondiale, misurata dal
PIL, è essenzialmente dovuta:
1) alle spese che dobbiamo sostenere per correggere gli errori e il degrado sociale
provocato in passato;
2) all'indebitamento, che è come prendere in prestito le risorse dal
futuro;
3) allo spostando di alcune attività dal settore sociale e familiare al settore
dell'economia monetizzata.
Come se non bastassero
le evidenze sperimentali, il GPI ci fornisce ulteriori importanti conferme che, nei
Paesi, cosiddetti avanzati, la scala
dell’economia ha superato le dimensioni ottimali e si trova già nell’area della
crescita antieconomica, dove i costi hanno superato i benefici.
Se crediamo che l'umore
popolare sia un buon indicatore del livello di prosperità, allora dobbiamo
ammettere che il GPI è uno strumento senz’altro più preciso del PIL nel misurare
il reale stile di vita delle persone. Il GPI, meglio del PIL, spiega perchè la
gente si sente sempre più triste, depressa, confusa e indignata, nonostante le ottimistiche
dichiarazioni ufficiali sulla immediata ripresa economica e le insistenti esortazioni
della classe dirigente, a consumare sempre di più per sostenere la crescita, amplificate e diffuse dalla pubblicità martellante
dei media, tutti schierati al loro servizio.
Conclusioni
Pur comprendendo che
la misura del benessere non è un compito facile ed è soggetto a diverse
arbitrarietà, tanto da non poter generalizzare le conclusioni, non si può
negare che negli Stati Uniti, a partire dal secondo dopoguerra, l’aumento del PIL
non ha portato ad un significativo maggior benessere.
Insomma, l’evidenza
sperimentale indica che i tanto magnificati benefici che la globalizzazione e
il libero scambio internazionale avrebbero dovuto apportare e per i quali siamo
stati costretti a sacrificare gli Stati nazionali e a rinunciare al welfare e
alle conquiste sociali, sono delle pure fandonie, delle enormi fallacie delle
quali le elite si sono servite per accumulare
enormi ricchezze alle spalle dei cittadini.
Un altro aspetto di notevole
importanza è che, l’impiego degli indicatori del benessere, quali il GPI,
mostra che, nella maggior parte dei Paesi sviluppati dell’occidente, la scala
dell’economia ha già oltrepassato, da tempo, le dimensioni ottimali ed ora si
trova nell’area della crescita antieconomica,
dove i costi della crescita superano i benefici.
E’ veramente
paradossale, per non dire altro, che sebbene i dati sperimentali ci indicano
che, sin dagli inizi degli anni ’90, il PIL non misura più il benessere
generale della popolazione italiana, noi continuiamo imperterriti ad attuare (o
a lasciarci imporre) politiche economiche basate sulla loro capacità di far crescere
il PIL.
Il PIL è un invenzione recente;
è stato introdotto da Simon Kuznets, negli anni ’30, con l'avvertenza che non si
tratta di un indicatore di benessere sociale. Detto questo, se il PIL è un indice numerico inadatto a misurare il benessere, che si dimostra anche falso e dannoso, e che ci ha resi succubi al dogma della
crescita biofisica infinita, allora è meglio abbandonarlo al più presto e
attuare politiche economiche che non siano basate su nessun indice numerico.
Si è visto che, adottare un indicatore sintetico, numerico, monetario (il PIL) comporta il rischio di cadere nella fallacia della realtà fraintesa: un ragionamento erroneo che si commette quando si è spinti a prestare più attenzione all’indicatore della misura quantitativa piuttosto che alla vera attività da misurare. Qui, l’errore consiste nel ritenere che lo stesso indicatore numerico (il PIL), ottenuto ragionando sul piano di astrazione dell’attività economica, possa essere utilizzato anche dopo essere passati al diverso piano di astrazione del benessere sociale. Non è difficile immaginare gli effetti perversi che derivano dall’assegnare dei valori limite quantitativi in un tale spazio qualitativo e incommensurabile.
L'evidenza sperimentale mostra l'esistenza di un effetto di soglia tra la crescita economica e il benessere umano. Con l'aumento della scala dell'economia si ha anche un aumento del livello di benessere però solo fino ad un certo limite, o valore di soglia, oltre il quale, i costi sociali e ambientali dovuti all'ulteriore crescita economica iniziano a prevalere sui benefici e ad avere un crescente impatto che riduce il livello di
benessere.
Relazione tra crescita economica e benessere
(Da: Beyond GDP: Measuring and achieving global genuine
progress)
8 ADOTTA UN APPROCCIO MERCANTILISTA
Il
mercantilismo teorizza la necessità di un
più forte ed efficiente intervento dello Stato in economia e costituisce la
dottrina sulla quale si basano le politiche economiche che sono state adottate:
a)
nel
passaggio dal nepotismo e favoritismo dell'economia feudale al capitalismo
mercantile;
b)
dai
grandi Stati europei Nazionali assoluti, come la Francia, Spagna e
Inghilterra, fra la fine del XVII e la prima metà del XVIII secolo
Storicamente,
il termine “mercantilismo”, che pare derivi da “mercantile” ossia dalla
mentalità o comportamento da mercante, fu assegnato dai fisiocrati, in epoca
successiva, per indicare il pensiero economico che
si è affermato nella maggioranza degli stati europei, a partire dal XIV secolo fino alla fine del XVIII secolo, quando fu
sostituito dal pensiero economico classico.
L’ideologia
mercantilista impone che tutti i Paesi si
impegnino in un commercio internazionale che assicuri a tutti una bilancia dei pagamenti con l’estero in perenne
surplus.
Qui la fallacia di composizione consiste nel confondere
i due diversi livelli olonici di un sistema complesso (il sistema mercantilistico
mondiale) e pretendere di estendere al tutto (all’insieme di tutti i Paesi del
mondo) la stessa dinamica mercantilistica, che è valida per una sua parte (nei
rapporti commerciali tra i singoli Paesi). L’illusione persiste fino a quando
tutti i Paesi, presi come un'unica entità globale, cercano, tutti
contemporaneamente e invano, di chiudere la loro bilancia dei pagamenti con
l’estero sempre in surplus.
Ecco allora che salta subito
evidente la contraddizione logica della macroeconomia mercantilista e la fallacia di composizione nella quale
essa cade quando pretende che tutti i Paesi, se vogliono definirsi virtuosi, debbono
chiudere in surplus la loro bilancia dei pagamenti con l’estero. Qui non si tratta di essere più o meno virtuosi
ma è una impossibilità logica. Se uno o più Paesi chiudono in surplus allora vuol
dire che altri Paesi devono logicamente chiudere in deficit. Far passare per
virtuoso un Paese che continua a fare surplus, anno dopo anno, è solo una grossa fallacia. In
realtà, è più probabile che si tratti di prepotenza, di prevaricazione o di
inganni commerciali.
Il mercantilismo non si
configurò come una teoria economica unitaria bensì come un insieme di principi
di politica economica che si sono evoluti nel tempo, acquisendo sempre maggiore
importanza, fino a dominare tutta l’età moderna. Raggiunse il suo culmine negli
Stati europei Nazionali assoluti, verso la metà del XVII secolo,
nell’Inghilterra di O. Cromwell e nella Francia di J.B. Colbert, per
giungere anche fino ai nostri tempi, sotto la forma del neomercantilismo.
Alcuni aspetti, tipici
della politica mercantilista, si possono già ritrovare nella prassi dei maggiori
Comuni medievali, specialmente italiani, dove l’intervento del potere pubblico
in materia industriale, commerciale e monetaria aveva assunto una notevole
importanza. Fu soprattutto con il declino del feudalesimo e lo sviluppo dello
Stato nazionale, monarchico assoluto,
che sorsero nuove esigenze finanziarie e il mercantilismo sviluppò nuove
funzioni. I mercantilisti (per lo più mercanti e amministratori) cercarono di
individuare le politiche più appropriate per favorire l’incremento della
potenza e della ricchezza della loro Nazione.
Come già affermato, il
mercantilismo non fu una disciplina unitaria ma un insieme di principi di
politica economica, il cui sviluppo si può storicamente distinguere nelle
seguenti tre fasi:
1)
Il bullionismo (dal francese bullions: lingotti). E’ la prima e la più antica fase del
mercantilismo. Parte dal Rinascimento, precede la scoperta dell’America e si
estende a coprire un arco di tempo che va all'incirca dalla metà del XIV
secolo fino al XVI secolo. La dottrina del bullionismo identificava la prosperità
economica di una Nazione, in termini di quantità di monete d’oro e d’argento e di gemme preziose possedute dallo Stato. A quei tempi, re, principi e papi avevano, come
unico obiettivo, quello di accumulare quanta più ricchezza materiale possibile, sotto forma di tesori.
2)
La dottrina
della bilancia commerciale con l’estero, più raffinata rispetto al bullionismo, è una metodologia, in auge
soprattutto dalla prima metà del XVII secolo, che richiedeva al Paese di
chiudere la cantabilità nazionale, sempre con il
massimo dell’attivo della
bilancia dei pagamenti con l’estero; assicurando cioè una perenne e massima
eccedenza delle esportazioni rispetto alle importazioni. Tale dottrina era finalizzata ad assicurare al Paese la massima riserva monetaria e ad accumulare la maggiore quantità di
metalli preziosi che, per i mercantilisti, sono la misura della ricchezza e del
potere di una Nazione.
3)
Il protezionismo. E’ la terza e ultima fase del
mercantilismo; è una fase che divenne dominante nei grandi Stati europei Nazionali
assoluti, come la Francia, Spagna e Inghilterra, dalla metà del XVII
secolo alla prima metà del XVIII secolo. Fu nella Francia del re Sole (1661 –
1715), sotto l’allora ministro Jean Battiste Colbert (1619 – 1693), che l’insieme di politiche economiche furono organizzate a sistema, allo scopo di proteggere l’industria nazionale. Quello che divenne poi noto col nome di “colbertismo” fu un vero e proprio “sistema mercantilistico”, appositamente architettato allo scopo di assicurare una bilancia commerciale nazionale perennemente in attivo. Come sistema, il colbertismo prevedeva: dazi all’importazione e incentivi all’esportazione delle merci,
divieti di esportazione delle materie prime, una rigida normativa nazionale, finalizzata a
promuovere la competitività delle aziende nazionali rispetto a quelle estere,
ecc.
Una città mercantile
In generale, il
mercantilismo è caratterizzato da una dinamica economica fortemente competitiva
che, oltre ad imporre politiche protezionistiche, prevede di mantenere bassi i costi di
produzione delle merci, agendo soprattutto sul costo del lavoro umano, che è la
voce di costo prevalente. Ciò è reso possibile dal mantenimento di un grosso
serbatoio di manodopera in eccesso, garantito da una forte crescita demografica
e dalla disoccupazione tecnologica.
Ancora oggi, secondo la
logica mercantilistica, una Nazione è ricca e potente quando massimizza le
esportazioni e minimizza le importazioni. Essa è tipicamente una Nazione che
possiede una popolazione numerosa e povera, impegnata ad estrarre dalle miniere
metalli preziosi, minerali utili e combustibili fossili, o a produrre grandi
quantità di beni e servizi, tutti da destinare all’esportazione. Il mercato
interno è ridotto ai minimi termini, sufficiente solo a sostenere la
popolazione ad un livello di reddito di mera sussistenza, così da ridurre al
minimo le importazioni dall’estero.
La politica mercantilista non è generalizzabile perché è logicamente
impossibile pretendere che tutti i Paesi chiudano i loro conti nazionali con la
bilancia dei pagamenti con l’estero in perenne surplus. Di fatto, il
mercantilismo, come anche l’attuale neomercantilismo, è un insieme di politiche
economiche di prevaricazione di un Paese commercialmente forte nei confronti di
altri Paesi. Il mercantilismo è un sistema che si basa sulla fallacia di
composizione, un ragionamento ingannevole che può essere valido solo per poche
nazioni forti e dominanti.
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