LE FALLACIE DELL’ECONOMIA TRADIZIONALE – Parte 4


Prosegue l’esame delle principali fallacie che interessano la teoria economica tradizionale. Sono essenzialmente fallacie di composizione che derivano dall’approccio cognitivo analitico, lineare, riduzionistico, che è poco appropriato per affrontare i problemi di una scienza sociale, complessa, quale è l’economia.

Il merito di aver criticato in modo costruttivo, acuto e profondo, i concetti sui quali si fonda la teoria economica tradizionale, neoclassica e neoliberista, va attribuito soprattutto all’economia ecologica (che non è la green economy né tutte le altre economie colorate, le quali sono solo fallaci derivazioni della teoria economica tradizionale).

L’economia ecologica ha tutt’altra connotazione. E’ un’economia che merita di essere conosciuta dal vasto pubblico. E’ un’economia umana, un’economia del benessere sociale, attenta soprattutto ai bisogni della gente. E’ una scienza interdisciplinare e postnormale che ha tutti gli attributi per diventare il nuovo paradigma socioeconomico dell’ecologia integrale; l’auspicato cambiamento verso un nuovo stile di vita, prospero, sostenibile e giusto, fondato in primo luogo sul rispetto degli esseri umani e della natura.

In questa quarta parte viene esaminata la fallacia che deriva dall’uso del PIL come strumento indicatore di benessere sociale, quando invece è un mero indicatore di attività economica. Si esamina inoltre la fallacia della dottrina mercantilistica, dalla quale emerge l’impossibilità della sua generalizzazione a tutti i Paesi del mondo.


7   USA IL PIL COME INDICATORE DI BENESSERE

Confondere la crescita con lo sviluppo

Gli economisti tradizionali e la classe politica dirigente, sedotti dal dogma neoclassico della crescita economica biofisica illimitata, tendono a confondere i due concetti: di crescita e di sviluppo, e propugnano il concetto che la crescita economica sia lo sviluppo sostenibile, chiamandola “crescita sostenibile”. Un ossimoro che viene propagandato con tanto impegno e che sta facendo crescere le dimensioni dell’economia globale ben oltre i limiti ottimali.


Gli economisti tradizionali sostengono che il flusso di beni e servizi prodotto dipende dall’efficienza produttiva del capitale artificiale. Se è così, allora occorre chiedersi, alla scala attuale dell’economia mondiale, qual è il benessere marginale per unità di capitale artificiale aggiunto e qual è il conseguente costo marginale dovuto alla diminuzione del capitale naturale e alla degradazione dei servizi ecosistemici che sono stati sacrificati per produrre quel capitale artificiale in più.

Purtroppo non sappiamo quali siano le attuali dimensioni del sistema socio–economico globale, in rapporto alle dimensioni dell’ecosistema che lo comprende in quanto non disponiamo ancora di indicatori della crescita aggregata capaci di fornirci, separatamente, delle buone stime sia delle funzioni dei benefici aggregati sia delle funzioni dei costi aggregati. 

Di fatto, gli economisti tradizionali valutano l’evoluzione del benessere di un Paese, misurando l’andamento del Prodotto Interno Lordo (PIL), nel corso del tempo. Per inciso, secondo una delle definizioni, il PIL è il valore di tutti i beni e servizi finali prodotti nell’economia di un Paese, in un dato periodo di tempo (anno). Pertanto, è un indice che si concentra sul valore della produzione e del consumo di merci e servizi, e non dice nulla sul modo in cui, da un tale aumento di produzione, possa derivare un miglioramento del benessere umano. 

Nel 1933, l’allora presidente USA, Franklin Delano Roosevelt, affidò all’economista Simon Kuznets il compito di creare un bilancio del reddito nazionale e, nel 1934, Kuznets presentò il suo lavoro al congresso degli Stati Uniti. In quell’occasione egli presentò il suo concetto di PIL, come indice macroeconomico (vedi Per quanto ancora dobbiamo usare il PIL ), precisando però che:

... il benessere di una nazione può a mala pena essere desunto dalla misurazione del reddito nazionale.

Pertanto, come precisò il suo inventore, il PIL non deve essere considerato un indicatore di benessere ma solo un indicatore di attività economica. Purtroppo, a causa dell’elevata correlazione diretta, inizialmente esistente, tra produzione economica e benessere umano, a poco a poco, crebbe l’erronea convinzione che la crescita dell’attività economica e la crescita del benessere fossero la stessa cosa. Oggi ne siamo così convinti che pensiamo, a livello globale, che l’unica politica economica possibile sia quella della crescita economica biofisica illimitata, misurata dal PIL.

Una corretta misura del benessere umano deve anche prendere in considerazione i servizi ecosistemici gratuitamente offerti dalla natura e la capacità che essa ha di rigenerare le risorse naturali. Questi però, sono concetti che appartengono ad un ordine di pensiero superiore, ad un’idea più complessa ed evoluta di progresso, che trascende la tradizionale misura della produzione industriale, effettuata con il PIL. Come ebbe a dire Irving Fisher: "il benessere umano è una funzione psichica che dipende dalla capacità di godersi la vita, avendo a disposizione i beni e i servizi che l’economia ci offre".

L’economia umana è una realtà sistemica enormemente complessa e una delle più importanti fallacie della realtà fraintesa che affliggono la teoria economica tradizionale riguarda proprio il fatto di credere di poter misurare un’entità così complessa come il sistema socioeconomico umano, con un semplice indicatore sintetico, numerico, monetario (il PIL), ottenuto ragionando unicamente sul piano di astrazione della mera attività economica e poi pensare di estenderne la validità anche per misurare altre caratteristiche del sistema socioeconomico, come il benessere sociale, che attengono a piani di astrazione diversi e tra loro incommensurabili.

Il risultato perverso che si ottiene con l'impiego del PIL è quello di generare tutta una serie di problemi, che derivano dall’imporre limiti quantitativi, numerici, per misurare variabili qualitative tra loro incommensurabili.


Il MEW, l’ ISEW e la critica del PIL come indicatore di benessere

Nel 1972, Nordhaus e Tobin, due economisti USA, condussero uno studio per accertare se il PIL fosse un buon indicatore del benessere, così da poter validare ogni politica economica che fosse basata sulla crescita del PIL. A tal fine, i due studiosi elaborarono un indicatore del benessere economico: il MEW – Measure of Economic Welfare, così costruito:

MEW = PIL + Valore tempo libero + Valore lavoro non pagato – Danni ambientali

e ne verificarono la correlazione con il PIL, su un periodo di tempo compreso tra il 1929 ed il 1965.

Lo studio dimostrò che, negli USA, esisteva una buona correlazione positiva tra PIL e MEW, anche se il MEW tendeva a crescere ad un tasso inferiore rispetto al PIL (ad un aumento del 6% del PIL corrispondeva solo un aumento del 4% del MEW). Rassicurati di un tale esito, gli economisti tradizionali si dimenticarono presto del MEW e continuarono a basare le loro politiche economiche sul PIL.

Nel 1989,  J. Cobb, C. Cobb e H. Daly decisero di riesaminare lo studio che Nordhaus e Tobin avevano condotto circa venti anni prima. A tal fine, essi considerarono gli stessi dati ma decisero di suddividerli in due periodi di tempo che vennero analizzarli separatamente: un primo periodo, di 17 anni, dal 1929 al 1946, e un secondo periodo, di 18 anni, dal 1947 al 1965. Quando analizzarono il secondo periodo si accorsero che la correlazione tra PIL e MEW era drasticamente peggiorata (ad un aumento del 6% del PIL corrispondeva solo un aumento del 1% del MEW). Insomma, il nuovo studio aveva dimostrato che, negli USA, il PIL stava progressivamente perdendo di affidabilità e autorevolezza come indicatore sul quale basare ogni politica economica che puntasse a  migliorare il benessere.



L’ ISEW: un indicatore dell’effettivo benessere economico 

Sebbene il MEW fosse un indicatore di benessere migliore del PIL, non era privo di difetti e dovette essere sottoposto ad alcune correzioni; ad esempio, il tempo libero era stato introdotto con un peso sproporzionato mentre altri fattori come, ad esempio, i costi ambientali e i cambiamenti nella distribuzione del reddito non erano neppure stati presi in considerazione.

Fu così che, nel 1989, J. Cobb, C. Cobb e Daly, allo scopo di migliorare la misura del livello di benessere economico sostenibile di una società, decisero di  apportare diversi miglioramenti al MEW ed elaborarono l’ indice di benessere economico sostenibile (ISEW – Index of Sustainable Economic Welfare). L’ ISEW è una correzione del MEW che tiene conto di una più ampia gamma di effetti dannosi della crescita economica ma esclude il valore della spesa pubblica per la difesa:

ISEW = Consumi privati + Spesa pubblica – Difesa + Valore lavoro non pagato – Danni ambientali

Pur basandosi su alcune premesse arbitrarie, che comunque non sono certamente più discutibili di quelle sulle quali si basa il PIL, l’ISEW venne proposto come un indice sintetico, numerico, monetario, alternativo al PIL, idoneo a misurare sia l’ambiente biofisico che il benessere sociale e culturale di una società. In particolare, l’ISEW considera una varietà di fattori sociali e ambientali, come:
-        la crescente disuguaglianza nella distribuzione del reddito
-        la crescente scarsità di capitale naturale
-        il contributo delle attività non monetizzate
-        il danno ecologico, di qualsiasi tipo
-        l’aumento del debito estero
-  l’accumulo delle spese difensive, considerate come costi (incidenti sul lavoro, inquinamento, incidenti del traffico, rumori, problemi di salute dovuti allo smog, tabagismo, alcolismo, droghe, ecc.)

L’ISEW è stato applicato alle economie di diversi Paesi quali: USA, Germania, Gran Bretagna, Austria, Svezia e Olanda. I risultati degli studi eseguiti presentano una notevole similitudine tra i vari Paesi e indicano che il Benessere Economico Sostenibile (ISEW) cresce più o meno con lo stesso ritmo del Prodotto Interno Lordo (PIL) fino a circa la metà degli anni ’70, inizi degli anni ’80; successivamente si stabilizza o addirittura diminuisce, mentre il PIL continua a crescere.

Con particolare riferimento agli USA, il confronto tra il  PIL e l’ISEW mostra che, fino agli anni ’70, i due indicatori sono ben correlati e crescono entrambi. Poi, a partire dagli anni ’70, il PIL continua a crescere mentre l’ISEW rimane praticamente costante fino alla fine degli anni ’80, per poi iniziare un lento declino.

In sostanza, gli studi condotti in modo prudente, senza tener conto dei costi dovuti ai prodotti nocivi come l’alcol e il tabacco né dei rendimenti decrescenti del reddito marginale, mostrano che, a partire dall’inizio degli anni ’70, negli USA, la crescita del PIL non si riflette in un’analoga crescita del benessere economico della Nazione.

 
USA, PIL e ISEW procapite
(da "Uneconomic growth in theory and in fact”,  H. Daly)

Nel tempo, all' ISEW furono affiancati altri indicatori, proposti per approssimare meglio l'andamento del benessere in base ai dati della contabilità nazionale. Vennero progressivamente introdotti altri fattori, ignorati sia dal MEW sia dall' ISEW, come ad esempio: 
a)    l’effetto della crescita del PIL di un singolo Paese sull’ecosistema globale e sul benessere a livello internazionale
b)    il contributo negativo di prodotti da scoraggiare quali: l’alcol, il tabacco, la droga, ecc.
c)    l’utilità marginale decrescente del reddito aggregato risultava sempre più evidente il peggioramento della correlazione con il PIL.

In Italia, i dati empirici mostrano che, fino alla fine degli anni ’80, il  PIL e l’ SWI (una variante dell’ ISEW) crescono allo stesso tasso e, in pratica, coincidono. Poi, dall’inizio degli anni ’90 fino al 2011, l’ISEW rimane pressochè costante mentre il PIL continua a crescere. Infine, dal 2011 in poi, il PIL tende a diminuire per poi stabilizzarsi mentre l‘ ISEW continua a diminuire. 

Italia, PIL e SWI procapite
(Fonte: Sapienza University of Rome)


L’Indicatore di Progresso Genuino  (GPI)

L’Indicatore di Progresso Genuino  o autentico (Genuine Progress Indicator – GPI) è stato proposto, nel 1994, da un gruppo di ricercatori ed economisti, tra cui Herman Daly, John Cobb e Philip Lawn. Il GPI deriva dall' ISEW e si propone come un indicatore del benessere economico di una nazione.

Alla pari del PIL, il GPI è un indicatore sintetico, numerico, monetario che amplia il quadro contabile convenzionale, indicato dal PIL, ad includere molte altre variabili, di notevole importanza per la misurazione di un “autentico” progresso. Oltre alla produzione economica, misurata in modo convenzionale, il GPI  considera più di una ventina di altri contributi economici, provenienti dalla famiglia, dalla società e dall’ambiente naturale, che il PIL trascura. Il GPI permette inoltre di distinguere le transazioni economiche che aumentano il benessere da quelle che lo diminuiscono e le integra per costruire la curva aggregata dei benefici e la curva aggregata dei costi dell'attività economica, che vengono poi confrontate. Il GPI, modifica alcuni elementi del PIL (come la distribuzione del reddito), somma diversi contributi, ignorati dal PIL (come il lavoro domestico e il volontariato), e sottrae le spese dannose  (come l’inquinamento e i costi della criminalità) e le spese difensive.

Indicatore di Progresso Genuino  (da GNHUSA)

Dato che sia il PIL che il GPI sono entrambi misurati in termini monetari, si ha il vantaggio di poterli confrontare sulla stessa scala. Dopo aver calcolato il GPI e il PIL per molti Paesi, tra i quali: Canada, Paesi Bassi, Austria, Inghilterra, Svezia e Germania), si sono confrontati i due indicatori. I risultati hanno nuovamente confermato che, sia negli USA che nella UE, al crescere del PIL, il GPI aumenta solo fino agli inizi degli anni '70, per poi iniziare a decrescere.

Dal grafico riportato qui sotto, si evince che, nonostante la forte crescita del PIL, il progresso misurato dal GPI è sostanzialmente fermo dagli anni '70.

USA  PIL – GPI
(Redefining Progress)

Il GPI si prefigge lo scopo di fornire ai cittadini e ai responsabili politici uno strumento più accurato per la misura del benessere generale dell'economia e di come la nostra condizione nazionale stia cambiando nel tempo.

Mentre il PIL pro capite è più che raddoppiato, a partire dalla metà del XX secolo ad oggi, il GPI mostra un andamento molto più complesso. E’ aumentato negli anni '50 e '60, per poi bloccarsi a partire dagli anni ’70. In generale si nota che il GPI procapite è progressivamente calato, rispetto al PIL pro capite. La divergenza tra PIL e GPI passa dall'1% negli anni '70 al 2% negli anni '80 fino al 6% negli anni '90. Questa ampia e crescente divergenza è un segnale di allarme di cui dobbiamo essere ben consapevoli. Ci avvisa che il nostro sottosistema economico globale fa sempre più fatica a crescere e attualmente si trova vincolato su una traiettoria che, nell’immediato futuro, ci imporrà costi sempre crescenti, all'avvicinarsi dei limiti imposti dall’ecosistema globale.

Il GPI ha il merito di rivelarci che la nostra attuale (debole) crescita economica mondiale, misurata dal PIL, è essenzialmente dovuta:
1)   alle spese che dobbiamo sostenere per correggere gli errori e il degrado sociale provocato in passato;
2)    all'indebitamento, che è come prendere in prestito le risorse dal futuro;
3)    allo spostando di alcune attività dal settore sociale e familiare al settore dell'economia monetizzata.

Come se non bastassero le evidenze sperimentali, il GPI ci fornisce ulteriori importanti conferme che, nei Paesi,  cosiddetti avanzati, la scala dell’economia ha superato le dimensioni ottimali e si trova già nell’area della crescita antieconomica, dove i costi hanno superato i benefici.

Se crediamo che l'umore popolare sia un buon indicatore del livello di prosperità, allora dobbiamo ammettere che il GPI è uno strumento senz’altro più preciso del PIL nel misurare il reale stile di vita delle persone. Il GPI, meglio del PIL, spiega perchè la gente si sente sempre più triste, depressa, confusa e indignata, nonostante le ottimistiche dichiarazioni ufficiali sulla immediata ripresa economica e le insistenti esortazioni della classe dirigente, a consumare sempre di più per sostenere la crescita,  amplificate e diffuse dalla pubblicità martellante dei media, tutti schierati al loro servizio.


Conclusioni

Pur comprendendo che la misura del benessere non è un compito facile ed è soggetto a diverse arbitrarietà, tanto da non poter generalizzare le conclusioni, non si può negare che negli Stati Uniti, a partire dal secondo dopoguerra, l’aumento del PIL non ha portato ad un significativo maggior benessere.

Insomma, l’evidenza sperimentale indica che i tanto magnificati benefici che la globalizzazione e il libero scambio internazionale avrebbero dovuto apportare e per i quali siamo stati costretti a sacrificare gli Stati nazionali e a rinunciare al welfare e alle conquiste sociali, sono delle pure fandonie, delle enormi fallacie delle quali le elite si sono servite per accumulare  enormi ricchezze alle spalle dei cittadini.

Un altro aspetto di notevole importanza è che, l’impiego degli indicatori del benessere, quali il GPI, mostra che, nella maggior parte dei Paesi sviluppati dell’occidente, la scala dell’economia ha già oltrepassato, da tempo, le dimensioni ottimali ed ora si trova nell’area della crescita antieconomica,  dove i costi della crescita superano i benefici.

E’ veramente paradossale, per non dire altro, che sebbene i dati sperimentali ci indicano che, sin dagli inizi degli anni ’90, il PIL non misura più il benessere generale della popolazione italiana, noi continuiamo imperterriti ad attuare (o a lasciarci imporre) politiche economiche basate sulla loro capacità di far crescere il PIL.

Il PIL è un invenzione recente; è stato introdotto da Simon Kuznets, negli anni ’30, con l'avvertenza che non si tratta di un indicatore di benessere sociale. Detto questo, se il PIL è un indice numerico inadatto a misurare il benessere, che si dimostra anche falso e dannoso, e che ci ha resi succubi al dogma della crescita biofisica infinita, allora è meglio abbandonarlo al più presto e attuare politiche economiche che non siano basate su nessun indice numerico.

Si è visto che, adottare un indicatore sintetico, numerico, monetario (il PIL) comporta il rischio di cadere nella fallacia della realtà fraintesa: un ragionamento erroneo che si commette quando si è spinti a prestare più attenzione all’indicatore della misura quantitativa piuttosto che alla vera attività da misurare. Qui, l’errore consiste nel ritenere che lo stesso indicatore numerico (il PIL), ottenuto ragionando sul piano di astrazione dell’attività economica, possa essere utilizzato anche dopo essere passati al diverso piano di astrazione del benessere sociale. Non è difficile immaginare gli effetti perversi che derivano dall’assegnare dei valori limite quantitativi in un tale spazio qualitativo e incommensurabile.

L'evidenza sperimentale mostra l'esistenza di un effetto di soglia tra la crescita economica e il benessere umano. Con l'aumento della scala dell'economia si ha anche un aumento del  livello di benessere però solo fino ad un certo limite, o valore di soglia, oltre il quale, i costi sociali e ambientali dovuti all'ulteriore crescita economica iniziano a prevalere sui benefici e ad avere un crescente impatto che riduce il livello di benessere.

Relazione tra crescita economica e benessere
(Da: Beyond GDP: Measuring and achieving global genuine progress)



8   ADOTTA UN APPROCCIO MERCANTILISTA

Il mercantilismo teorizza la necessità di un più forte ed efficiente intervento dello Stato in economia e costituisce la dottrina sulla quale si basano le politiche economiche che sono state adottate:
a)    nel passaggio dal nepotismo e favoritismo dell'economia feudale al capitalismo mercantile;
b)    dai grandi Stati europei Nazionali assoluti, come la Francia, Spagna e Inghilterra, fra la fine del XVII e la prima metà del XVIII secolo

Storicamente, il termine “mercantilismo”, che pare derivi da “mercantile” ossia dalla mentalità o comportamento da mercante, fu assegnato dai fisiocrati, in epoca successiva, per indicare il pensiero economico che si è affermato nella maggioranza degli stati europei, a partire dal XIV secolo fino alla fine del XVIII secolo, quando fu sostituito dal pensiero economico classico.

L’ideologia mercantilista impone che tutti i Paesi si impegnino in un commercio internazionale che assicuri a tutti una bilancia dei pagamenti con l’estero in perenne surplus.

Qui la fallacia di composizione consiste nel confondere i due diversi livelli olonici di un sistema complesso (il sistema mercantilistico mondiale) e pretendere di estendere al tutto (all’insieme di tutti i Paesi del mondo) la stessa dinamica mercantilistica, che è valida per una sua parte (nei rapporti commerciali tra i singoli Paesi). L’illusione persiste fino a quando tutti i Paesi, presi come un'unica entità globale, cercano, tutti contemporaneamente e invano, di chiudere la loro bilancia dei pagamenti con l’estero sempre in surplus.

Ecco allora che salta subito evidente la contraddizione logica della macroeconomia mercantilista e la fallacia di composizione nella quale essa cade quando pretende che tutti i Paesi, se vogliono definirsi virtuosi, debbono chiudere in surplus la loro bilancia dei pagamenti con l’estero.  Qui non si tratta di essere più o meno virtuosi ma è una impossibilità logica. Se uno o più Paesi chiudono in surplus allora vuol dire che altri Paesi devono logicamente chiudere in deficit. Far passare per virtuoso un Paese che continua a fare surplus, anno dopo anno, è solo una grossa fallacia. In realtà, è più probabile che si tratti di prepotenza, di prevaricazione o di inganni commerciali.

Il mercantilismo non si configurò come una teoria economica unitaria bensì come un insieme di principi di politica economica che si sono evoluti nel tempo, acquisendo sempre maggiore importanza, fino a dominare tutta l’età moderna. Raggiunse il suo culmine negli Stati europei Nazionali assoluti, verso la metà del XVII secolo, nell’Inghilterra di O. Cromwell e nella Francia di J.B. Colbert, per giungere anche fino ai nostri tempi, sotto la forma del neomercantilismo. 


Alcuni aspetti, tipici della politica mercantilista, si possono già ritrovare nella prassi dei maggiori Comuni medievali, specialmente italiani, dove l’intervento del potere pubblico in materia industriale, commerciale e monetaria aveva assunto una notevole importanza. Fu soprattutto con il declino del feudalesimo e lo sviluppo dello Stato nazionale, monarchico assoluto,  che sorsero nuove esigenze finanziarie e il mercantilismo sviluppò nuove funzioni. I mercantilisti (per lo più mercanti e amministratori) cercarono di individuare le politiche più appropriate per favorire l’incremento della potenza e della ricchezza della loro Nazione.

Come già affermato, il mercantilismo non fu una disciplina unitaria ma un insieme di principi di politica economica, il cui sviluppo si può storicamente distinguere nelle seguenti tre fasi:

1)    Il bullionismo (dal francese bullions: lingotti). E’ la prima e la più antica fase del mercantilismo. Parte dal Rinascimento, precede la scoperta dell’America e si estende a coprire un arco di tempo che va all'incirca dalla metà del XIV secolo fino al XVI secolo. La dottrina del bullionismo identificava la prosperità economica di una Nazione, in termini di quantità di monete d’oro e d’argento e di gemme preziose possedute dallo Stato. A quei tempi, re, principi e papi avevano, come unico obiettivo, quello di accumulare quanta più ricchezza materiale possibile, sotto forma di tesori.

2)    La dottrina della bilancia commerciale con l’estero, più raffinata rispetto al bullionismo, è una metodologia, in auge soprattutto dalla prima metà del XVII secolo, che richiedeva al Paese di chiudere la cantabilità nazionale, sempre con il massimo dell’attivo della bilancia dei pagamenti con l’estero; assicurando cioè una perenne e massima eccedenza delle esportazioni rispetto alle importazioni. Tale dottrina era finalizzata ad assicurare al Paese la massima riserva monetaria e ad accumulare la maggiore quantità di metalli preziosi che, per i mercantilisti, sono la misura della ricchezza e del potere di una Nazione.

3)    Il protezionismo. E’ la terza e ultima fase del mercantilismo; è una fase che divenne dominante nei grandi Stati europei Nazionali assoluti, come la Francia, Spagna e Inghilterra, dalla metà del XVII secolo alla prima metà del XVIII secolo. Fu nella Francia del re Sole (1661 – 1715), sotto l’allora ministro Jean Battiste Colbert (1619 – 1693), che l’insieme di politiche economiche furono organizzate a sistema, allo scopo di proteggere l’industria nazionale.  Quello che divenne poi noto col nome di “colbertismo” fu un vero e proprio “sistema mercantilistico”, appositamente architettato allo scopo di assicurare una bilancia commerciale nazionale perennemente in attivo. Come sistema, il colbertismo prevedeva: dazi all’importazione e incentivi all’esportazione delle merci, divieti di esportazione delle materie prime, una rigida normativa nazionale, finalizzata a promuovere la competitività delle aziende nazionali rispetto a quelle estere, ecc.

Una città mercantile

In generale, il mercantilismo è caratterizzato da una dinamica economica fortemente competitiva che, oltre ad imporre politiche protezionistiche,  prevede di mantenere bassi i costi di produzione delle merci, agendo soprattutto sul costo del lavoro umano, che è la voce di costo prevalente. Ciò è reso possibile dal mantenimento di un grosso serbatoio di manodopera in eccesso, garantito da una forte crescita demografica e dalla disoccupazione tecnologica.

Ancora oggi, secondo la logica mercantilistica, una Nazione è ricca e potente quando massimizza le esportazioni e minimizza le importazioni. Essa è tipicamente una Nazione che possiede una popolazione numerosa e povera, impegnata ad estrarre dalle miniere metalli preziosi, minerali utili e combustibili fossili, o a produrre grandi quantità di beni e servizi, tutti da destinare all’esportazione. Il mercato interno è ridotto ai minimi termini, sufficiente solo a sostenere la popolazione ad un livello di reddito di mera sussistenza, così da ridurre al minimo le importazioni dall’estero.

La politica mercantilista non è generalizzabile perché è logicamente impossibile pretendere che tutti i Paesi chiudano i loro conti nazionali con la bilancia dei pagamenti con l’estero in perenne surplus. Di fatto, il mercantilismo, come anche l’attuale neomercantilismo, è un insieme di politiche economiche di prevaricazione di un Paese commercialmente forte nei confronti di altri Paesi. Il mercantilismo è un sistema che si basa sulla fallacia di composizione, un ragionamento ingannevole che può essere valido solo per poche nazioni forti e dominanti.


(continua)       (torna indietro)

Commenti