PER QUANTO ANCORA DOBBIAMO USARE IL PIL?
E’ corretto
continuare a considerare il Prodotto Interno Lordo (PIL) come il parametro
principale per valutare lo stato di salute di un Paese? Se il PIL di un Paese
cresce del 1,5 % all’anno ma il suo reale benessere rimane stazionario, stiamo
andando bene o stiamo andando male? In effetti, la ricchezza di un Paese non
basta a misurare il benessere di una popolazione.
Il PIL è un indice macroeconomico ideato dall’economista Simon Kuznets che, nel 1933, ricevette l'incarico dall’allora presidente USA, Franklin Delano Roosevelt, di creare un bilancio del reddito nazionale. Kutznets concepì un’idea veramente ardita: pensare di poter concentrare tutta l’attività economica umana in un solo numero.
Per Kutznetz l’indice
numerico doveva comprendere alcune attività, con il loro segno positivo o
negativo, ed escluderne totalmente delle altre. Più precisamente, riteneva di
dover escludere tutte le attività che non fossero utili al benessere collettivo
come, ad esempio, la spesa per le armi, la pubblicità, la speculazione e tutte
le attività illecite quali: il gioco d’azzardo, la prostituzione, l’estorsione.
Riteneva inoltre che si dovessero includere, con il segno positivo, tutte le
attività che forniscono un effettivo benessere sociale e con il segno negativo
tutte quelle dannose come, ad esempio, le sigarette, e l’alcool. Ben presto
l’idea originaria di Kutznetz si rivelò un progetto velleitario data l’enorme
difficoltà se non l’impossibilità dell’impresa di concentrare, in un unico
numero, l’intera economia di un Paese, un sistema socioeconomico di enorme
complessità, con diversi e contrastanti interessi in gioco.
Era un obiettivo
estremamente difficile tentare di unificare in un unico tipo di contabilità
nazionale ed internazionale i diversi modi di concepire il bilancio di un
Paese. Data la necessità di dover mediare tra opposte esigenze, il PIL finì per
includere tutte le attività, senza differenziare quelle con il segno positivo
da quelle con il segno negativo e senza distinguere tra i costi e i benefici
della crescita. Si accettò che tutte le transazioni economiche effettuate
contribuissero a far crescere il PIL, senza che l’indicatore potesse esprimere
alcun giudizio sulla loro natura, senza distinguere se l’attività economica del
Paese stesse producendo benessere o malessere per la collettività. Alla fine,
come in tutte le mediazioni, si raggiunse un accordo verso il basso, fu
travisata l’idea originaria di Kutznetz e il PIL si limitò a quantificare, in
un’unità monetaria, la sommatoria delle transazioni economiche tra gli agenti.
Solo per fare qualche
esempio sulla difficoltà di unificare la contabilità nazionale di diversi Paesi,
occorre dire che in Germania, Austria, Ungheria e Grecia la prostituzione è
un’attività legale, e che in Olanda, le droghe leggere sono legali. In quei
Paesi, dunque, quelle attività entrano nella contabilità e contribuiscono a
dare l’impressione di un’economia nazionale più florida. In Germania, la
prostituzione frutta 14,5 miliardi di euro (0,4 % del PIL), in Colombia il
traffico di cocaina, nel 2010, rappresentava l’1% del PIL, negli USA, la
vendita delle armi entra nel calcolo del PIL mentre in Europa no.
Il problema si ha
anche con riferimento alle spese sanitarie che contribuiscono ad aumentare il
PIL e a dare l’impressione che un Paese, più è ammalato, più è prospero e
florido. Ad esempio, negli Stati Uniti, le spese sanitarie ammontano a circa il
17% del PIL, in Francia sono l’11%, in Giappone il 10%, nel Regno Unito il 9%, in
Italia l’ 8,9 %. Se però, consideriamo le classifiche di vita attesa (Wold
Health Organization – 2015), che sono un migliore indicatore del benessere di
una nazione, ci accorgiamo che il PIL di un Paese non è correlato al suo
benessere. Se consideriamo il PIL (a parità di potere d’acquisto – PPA)
procapite (2017), gli Stati Uniti, con 59495 $, sono al 31° posto, mentre il Regno Unito, con 43620 $,
è al 20° posto, la Francia, con 43550 $, è al 9° posto, il Giappone, con 42659
$, è al 1° posto, l’ Italia, con 37970 $, al 6° posto.
Prendiamo ad esempio
la Cina. Da decenni il Pil cinese sta crescendo strepitosamente ma, se
consideriamo gli enormi impatti sociali e ambientali, ci rendiamo conto che la
Cina ha sacrificato l’ambiente e il clima per la crescita economica. A causa
dell’inquinamento, in molte aree, la fitta cappa di smog rende l’aria
irrespirabile. Nella regione comprendete Pechino, il valore medio annuo di PM
2,5 (il particolato fine, con un diametro minore di 2,5 micron, che quando
respirato raggiunge i bronchi) supera di nove volte la soglia dei 10 µg/m3,
stabilita dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS).
Il suolo della Cina è
fortemente inquinato. In particolare una notevole estensione di terreno
agricolo è inquinato da metalli pesanti tanto che, ogni anno, milioni di
tonnellate di cereali finiscono al macero, perché non adatte al consumo.
In Cina vi è anche
un’emergenza dell’acqua. In primo luogo perché scarseggia in varie zone
dell’enorme Paese, poi perché i due quinti dell’acqua di fiumi e torrenti
cinesi non è potabile e un sesto è praticamente inutilizzabile. Anche le falde
acquifere cinesi sono inquinate, principalmente da nitrati, metalli pesanti e
altri agenti altamente tossici. Secondo un rapporto di Pechino, nei bacini di
pianura orientali del Paese, oltre l'80% delle acque del sottosuolo
prelevate da pozzi poco profondi per gli usi agricoli, per le fabbriche e le
famiglie rurali non sono potabili. Solo un terzo può essere è idoneo all’uso
agricolo e industriale ma circa la metà non è adatta al consumo umano.
E’ un dato di fatto
che, negli ultimi decenni in molti Paesi avanzati non si registra più una
stretta correlazione positiva tra la crescita del PIL e l’aumento del benessere.
In Italia, ad esempio, a partire dagli inizi degli anni ’90, il PIL procapite
continua crescere, mentre l’indice di benessere procapite ristagna (SWI procapite). Questa tendenza prosegue fino
al 2007, quando inizia la grande crisi. Da allora in poi, sia il PIL
procapite che l’SWI procapite continuano inesorabilmente a diminuire (il lungo
declino italiano).
Storico: PIL procapite
e Indice di Benessere Sostenibile (SWI) procapite, in Italia
Oggi tutti gli
economisti concordano sul fatto che il PIL sia solo un buon indicatore
sintetico, quantitativo dell’attività economica, espresso in una dimensione
valoriale, simbolica, monetaria. In pratica, il PIL è un numero che misura
l’attività economica di un Paese esprimendola, ad esempio, in dollari
complessivi o in dollari procapite. In ogni caso, un pessimo misuratore dello
sviluppo sostenibile e del benessere di una nazione.
E’ significativo che
in Cina, a livello locale, si stia abbandonando il PIL come indicatore delle
prestazioni, recependo la direttiva del presidente cinese Xi Jinping, del
giugno 2013, quando aveva affermato: "Non possiamo più usare il semplice PIL
per decidere chi sono i più bravi".
C’è un ulteriore aspetto
da tenere presente. Per come è definito, il PIL considera le merci e i servizi
prodotti all’interno dei confini nazionali ma allora che senso ha usare il PIL
quando la globalizzazione in atto sta sfumando i confini tra gli State e quando
l’economia sta diventando sempre di più un’economia dei servizi (80% negli USA)
che non della produzione di merci? In tali condizioni, per avere un quadro
esauriente dell’economia di una nazione si dovrebbe tener conto di tutti i
valori e non solo della produzione e dei servizi. In un buon indicatore occorre
comprendere anche il capitale umano (popolazione, educazione, salute), il capitale
di conoscenza (arte, scienza, ecc..) e il capitale ambientale (bellezze
paesaggistiche, fiumi, mari, ecc.).
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