LE FALLACIE DELL’ECONOMIA TRADIZIONALE – Parte 6
Si conclude, con questo
post, l’esame delle principali fallacie che minano, alle fondamenta, la teoria
economica tradizionale.
In questa sesta parte si
esamina la teoria del vantaggio comparato, formulata dall’economista classico
David Ricardo e la sua fallace interpretazione da parte dell’economia
tradizionale neoliberista, che mira a giustificare e promuovere la globalizzazione dell'economia e un forte impegno nella crescita del libero commercio internazionale. Si vedrà come la sua erronea ma astuta applicazione,
nell’attuale contesto socioeconomico mondiale globalizzato, abbia avvantaggiato soprattutto le grandi compagnie multinazionali. Viene
infine esaminata l’illusione di una rinvigorita e continua crescita economica
biofisica, a livello mondiale, grazie all’importazione di capitale naturale dai
Paesi in via di sviluppo. Una narrativa erronea, basata sulla fallacia di
composizione; un'illusione collettiva che fa credere ai Paesi di poter trarre, tutti contemporaneamente, significativi benefici dall’importazione di capitale naturale.
In questo lungo articolo, suddiviso in più parti, abbiamo
messo in evidenza come l’economia tradizionale, neoclassica e neoliberista, oggi
dominante, sia ricca di fallacie, di errori argomentativi che vengono accuratamente nascosti dietro affermazioni dogmatiche, sorrette da una forte
propaganda, tesa a creare un pensiero economico unico, del tutto amorale. Le
fallacie derivano essenzialmente
dalla sua visione preanalitica e dall’approccio cognitivo analitico, lineare, riduzionistico,
che è poco appropriato per affrontare i problemi dell’economia, che è
soprattutto una scienza sociale, radicata in una realtà molto complessa.
Da struttura monolitica e dogmatica che
era, anche in seguito ai suoi numerosi recenti fallimenti interpretativi, la
teoria economica tradizionale sta iniziando a mostrare importanti cedimenti. Il
suo isolamento dogmatico non depone certo a suo favore, perché la spinge a
costruire modelli sempre più avulsi dalla realtà, privi di una seria capacità
predittiva. Ne sono un chiaro esempio fallimentare le tante crisi che la teoria economica
tradizionale non è mai riuscita a prevedere, compresa l’ultima e la più
importante: la grande recessione USA, del 2007 – 2008.
Viviamo in tempi molto interessanti. Stanno
maturando idee innovative e stanno acquisendo autorevolezza scuole economiche
alternative; tra esse, una molto importante è l’economia ecologica o
economia dello stato stazionario. Tra i suoi meriti spicca quello di essersi collocata
in posizione fortemente critica nei confronti dell’economia tradizionale e di aver messo in evidenza e valutato in
modo acuto e profondo le numerose fallacie che l’affliggono.
E’ importante non confondere l'economia ecologica con la green economy né con tutte le altre
economie colorate (che sono solo derivazioni della teoria economica
tradizionale). L’economia
ecologica ha tutt’altra connotazione e merita di essere conosciuta anche al di fuori dell'ambito accademico. E’ un’economia
umana, un’economia del benessere sociale, un'economia della speranza, attenta soprattutto ai bisogni della
gente. E’ una scienza postnormale, interdisciplinare, etica, che ha tutti gli attributi per essere a fondamento del nuovo paradigma
socioeconomico dell’ecologia integrale; l’auspicato cambiamento verso un nuovo
stile di vita, prospero, sostenibile e giusto, fondato sul rispetto per gli
esseri umani e per la natura.
11 CREDE NEL
VANTAGGIO COMPARATO, IN UN CONTESTO DI GLOBALIZZAZIONE
Il pensiero economico dominante, neoclassico e neoliberista, ritiene che la globalizzazione ed il libero commercio internazionale siano fenomeni da incoraggiare e potenziare con il massimo impegno sia perché li considera dei meccanismi di allocazione efficiente delle risorse sia perché li vede come elementi capaci di sostenere ad oltranza la tanto auspicata crescita economica biofisica illimitata.
Purtroppo la globalizzazione si è rivelata essere
il più grave tra gli errori economico finanziari commessi dai Paesi
dell'occidente, la cui dinamica ha innescato la crisi economica, ancora
persistente in Occidente. I Paesi occidentali hanno volutamente ridotto la loro
produzione, insistendo però sulla continua crescita dei consumi e, per colmare
il crescente divario tra i consumi, in aumento, e la produzione, in calo, sono
ricorsi ad un indebitamento continuo e sconsiderato (economia finanziaria). I
Paesi dell’Occidente sono caduti nella trappola della globalizzazione, che ha pesantemente
indebolito le loro economie e li ha condotti in uno stato di generalizzata
crisi economica. Questo è successo perché sono stati tratti in inganno da almeno due fallacie, tipiche del
pensiero economico tradizionale, neoclassico e neoliberista.
L’ECONOMIA
TRADIZIONALE IGNORA L’AMBIENTE (il
primo grave errore dell’Occidente)
Il primo grave errore
commesso dall’Occidente origina dalla “visione
preanalitica” della teoria economica tradizionale (neoclassica) che ignora
l’interazione dell’economia umana con il suo ambiente biofisico (l’ecosistema
globale) e ragiona esclusivamente su un piano di astrazione simbolico,
monetario, dove postula l’esistenza di un flusso circolare perpetuo del valore
di scambio tra famiglie ed imprese, la cui dinamica è governata dalle leggi
della matematica finanziaria.
A causa a della sua
“visione preanalitica”, la teoria economica tradizionale non prevede scambi di
risorse naturali (materia ed energia) tra il sistema socioeconomico e il suo
ambiente. Nel modello del flusso circolare perpetuo tra famiglie ed
aziende, quello che circola non sono
risorse naturali e beni biofisici, prodotti e consumati, ma unicamente il loro
astratto valore di scambio, misurato in unità simboliche, monetarie.
Non possedendo il
concetto di transflusso e di processo entropico, gli economisti tradizionali
credono nel criterio di “sostenibilità
debole” e sono ciecamente convinti della perfetta sostituibilità tra
capitale naturale e capitale artificiale:
come il capitale naturale si può
trasformare in capitale artificiale, così anche il capitale artificiale si può
trasformare in capitale naturale.
Criterio
di “sostenibilità debole”
(dal
capitale naturale al capitale artificiale e viceversa)
Adottando il criterio della “sostenibilità debole” si
è ritenuto di poter risolvere il problema dell’esaurimento delle risorse
naturali, che possono essere totalmente sostituite dal capitale artificiale.
E’ la tipica fallacia della realtà
fraintesa in cui cade la teoria economica tradizionale alla quale mancano
gli strumenti cognitivi per riconoscere la natura complessa del sistema
socioeconomico. E’ la dimostrazione di quanto sia ingenuo il suo modello
meccanicistico del flusso circolare del valore di scambio che ignora la
multidimensionalità del sistema socioeconomico e, in particolare, la sua
dimensione biofisica, sul cui piano di astrazione il comportamento è regolato
dalle leggi della termodinamica e, in particolare, dalla legge dell’entropia;
leggi che sono indipendenti e irriducibili da quelle finanziarie.
Sembra incredibile come
l’intera classe politica dell’occidente, malamente consigliata da una scuola di
economisti, sia potuta cadere in una tale fallacia e abbracciare il criterio di
“sostenibilità debole”; ma è proprio quello che è successo. Gli economisti
tradizionali, che non conoscono i principi della termodinamica, sono riusciti a
convincere i politici che, anche su un pianeta di dimensioni finite e con
risorse limitate, a patto di aumentarne l’efficienza, è possibile assicurare
una crescita economica biofisica illimitata e garantire uno stile di vita
sempre più ricco e prospero ad una popolazione in continua crescita.
Il criterio di
“sostenibilità debole” è chiaramente fallace e porta a sottovalutare la vera
natura del sistema socio economico globale che, nella sua dimensione biofisica,
è competitivo perchè trova precisi limiti termodinamici. Anche un bambino
capirebbe che, su un pianeta finito, prima o poi si raggiungono i suoi limiti ambientali
e si entra in una situazione di competizione per le risorse. La Cina e altri
Paesi emergenti lo hanno capito da subito ed è per questo che si sono attivati
per acquisire, attraverso il commercio, la moneta occidentale, sempre più
svalutata e debole, e convertila in materie prime.
L’ECONOMIA
TRADIZIONALE SI LASCIA SEDURRE DAL PRINCIPIO DEL "VANTAGGIO COMPARATO” (il secondo grave errore
dell’Occidente)
Il secondo grave errore
commesso dall’Occidente è quello di essersi lasciato sedurre dal principio del
"vantaggio comparato", sviluppato in epoca classica dall'economista
inglese David Ricardo (1772 – 1823).
Il principio del
"vantaggio comparato" afferma che, sotto determinate condizioni, due
Paesi, al cui interno sussistono requisiti di libera concorrenza, possono entrambi
beneficiare di notevoli vantaggi se si impegnano in una relazione di libero
scambio commerciale, con merci che soddisfano determinati rapporti di
produttività. Un Paese si specializza nella produzione di una merce, che
scambia con l’altra, realizzata dal Paese partner. Il principio del
"vantaggio comparato" assicura che entrambi i Paesi traggono grandi
benefici dallo scambio commerciale e questo, indipendentemente dai costi di
produzione delle due merci, all’interno di ciascun Paese, che possono anche
essere molto diversi.
In pratica, il Paese 1
si specializza nella produzione di una merce A, per la quale dispone di un
vantaggio comparato rispetto ad un’ altra merce B (un rapporto di produttività
tra le due merci maggiore di quello omologo del Paese 2, che è suo partner
commerciale) e poi esporta la merce A verso il Paese 2, dal quale importa la
merce B.
ESEMPIO.
Supponiamo che, nel Paese
1, l’economia produca vino con una produttività PV1 = 4 (barili di
vino / uomo . anno) e stoffa con una produttività PS1 = 20 (pezze di
stoffa / uomo . anno) e che, nel Paese 2, l’economia produca vino con una produttività
PV2 = 2 (barili di vino / uomo . anno) e la stoffa con una
produttività PS2 = 40 (pezze di stoffa / uomo . anno).
Si hanno dunque i seguenti rapporti di
produttività::
-
nel
Paese 1, il rapporto di produttività tra vino e stoffa vale: PV1 / PS1
= 4 / 20 = 0,2
-
nel
Paese 2, il rapporto di produttività tra vino e stoffa vale: PV2 / PS2
= 2 / 40 = 0,05
Si osserva che, nel Paese 1, il
rapporto di produttività tra vino e stoffa è maggiore che nel Paese 2; cioè il
Paese 1 ha un vantaggio comparato nel produrre vino rispetto al Paese 2. Quindi,
impegnandosi in uno scambio commerciale con il Paese 2, il Paese 1 troverà
vantaggioso specializzarsi ad esportare vino e ad importare stoffa.
Con semplicissimi passaggi matematici,
i rapporti di produttività di cui sopra, si possono invertire e scrivere come
segue:
-
nel
Paese 1, il rapporto di produttività tra stoffa e vino vale: PS1 / PV1
= 20 / 4 = 5
-
nel
Paese 2, il rapporto di produttività tra stoffa e vino vale: PS2 / PV2
= 40 / 2 = 20
Con l’inversione, si ha che nel Paese 2
il rapporto di produttività tra stoffa e vino risulta maggiore che nel Paese 1.
Di conseguenza, il Paese 2 ha un vantaggio comparato nel produrre stoffa rispetto
al Paese 1. Impegnandosi in uno scambio commerciale con il Paese 1, il Paese 2
troverà pertanto vantaggioso specializzarsi ad esportare stoffa e ad importare
vino.
I reciproci benefici del principio
del "vantaggio comparato"
In condizioni di validità del principio
del "vantaggio comparato", entrambi i Paesi possono godere dei
seguenti benefici:
a) un aumento
della capacità produttiva, ben oltre il livello conseguibile dal Paese qualora
tentasse di produrre, al suo interno e con le sue sole risorse, tutte le merci di
cui necessita (produzione autarchica);
b) un incremento dell’
attività commerciale di import/export;
c) un maggior
tasso di crescita economica e, di conseguenza, un maggior reddito da ripartire.
Gli
economisti tradizionali,
neoclassici e neoliberisti, con la loro ansia di inseguire la tanto invocata e
desiderata crescita economica biofisica illimitata, sono infervorati promotori della globalizzazione e del commercio
internazionale e non perdono mai l’occasione di esaltare i benefici reciproci che
il principio del "vantaggio comparato" assicura a tutti i Paesi
che si impegnano nel libero
scambio commerciale. Sono così entusiasti di quel principio che, ignorando le condizioni indicate
dallo stesso Ricardo, propagandano (erroneamente) i maggiori vantaggi, per
tutti, del commercio internazionale, in condizioni di libera circolazione internazionale dei
capitali.
Gli economisti ecologici pensano che il tema del commercio internazionale sia tra i più rilevanti perché riguarda la
distribuzione della ricchezza, un aspetto di politica economica che, per
l’economia ecologica, è secondo solo alla politica della scala ottimale
dell’economia globale. Va subito detto che gli economisti ecologici non rifiutano a
priori il commercio internazionale, però avvisano che il principio del vantaggio
comparato, se applicato nell'attuale contesto socioeconomico globalizzato, con la libera circolazione internazionale dei capitali, non è in grado di assicurare i vantaggi reciproci ad entrambi i Paesi partner nel commercio internazionale.
Le
condizioni che assicurano il principio del “vantaggio comparato”
Ricardo aveva avvertito che
i Paesi partner, impegnati nel commercio internazionale, possono godere di benefici
reciproci, garantiti dal principio del “vantaggio comparato”, solo se si
verificano determinate condizioni che lo stesso Ricardo ha elencato. Quando, in uno o in
entrambi i Paesi, anche
solo una delle condizioni non risulta verificata, allora i benefici del
“vantaggio comparato” vengono meno. Le condizioni solo le seguenti.
Il sistema socioeconomico
deve espandersi liberamente.
Il
sottosistema socioeconomico si
trova in fase di libera espansione quando, pur essendo interamente compreso
all’interno del suo limitato ecosistema (ambiente biofisico), ha dimensioni
così contenute da poter ritenere che i limiti ecologici siano ancora
infinitamente lontani. Tale condizione era valida ai tempi di Ricardo, quando
l’economia umana era appena agli inizi ed il mondo era pieno di capitale
naturale e praticamente ancora vuoto di capitale artificiale. Oggi, una tale
condizione si può verificare solo in qualche Paese in via di sviluppo ma non
certamente nei Paesi sviluppati.
E’ vietata la libera
circolazione internazionale dei capitali. La condizione di confinamento
dei fattori di produzione, lavoro umano e capitale artificiale, entro le
frontiere della Nazione era valida nel
XIX secolo, quando Ricardo enunciò il suo principio. A partire dagli ultimi
decenni del XX secolo non lo è più. La globalizzazione ha comportato un’elevata mobilità internazionale dei
capitali e importanti delocalizzazioni delle attività verso aree caratterizzate
da costi del lavoro più vantaggiosi. Oggi il capitale è libero di muoversi
verso i Paesi che offrono le condizioni più favorevoli per attirare gli
investimenti e per massimizzare i profitti, senza perdere di competitività: manodopera a basso costo, ridotti
standard ambientali, di assistenza sociale e sanitaria, di sicurezza sul lavoro,
ecc.
Tutte le esternalità sono incorporate nei prezzi delle merci. Una buona
relazione di scambio commerciale implica l’assenza di esternalità.
Spesso i Paesi partner in un commercio internazionale non hanno necessariamente
gli stessi usi e costumi. Non è raro che uno o entrambi i Paesi non internalizzano
i costi delle esternalità nel prezzo delle merci oppure lo fanno in modo
diverso. Per costi delle esternalità si intendono i danni all’ambiente e alla
salute dei lavoratori e della popolazione, lo sfruttamento della manodopera,
l’esaurimento delle risorse naturali, ecc.
Stabilità dei prezzi. Per un corretto scambio commerciale nei due Paesi ci
deve essere stabilità dei prezzi. Quando l’economia di uno dei Paesi è
caratterizzata da un elevato tasso di inflazione, quel Paese può andare
incontro ad un deterioramento della relazione di scambio che lo danneggia seriamente.
A parità di prodotti esportati, quel Paese potrà importare sempre di meno e
tenderà ad impoverirsi.
Scambio commerciale a parità di regole. Uno scambio
commerciale equo può avvenire solo se entrambi i Paesi si relazionano con lo stesso
insieme di regole (stessi standard ambientali, di assistenza sociale e
sanitaria, di sicurezza sul lavoro, ecc.). Oggi, i Paesi che si specializzano e
si impegnano a commerciare liberamente con altri Paesi partner non posseggono
necessariamente modelli di sviluppo socioeconomico simili. Nei diversi Paesi
possono essere in vigore insiemi di regole molto diverse (welfare, sicurezza
sul lavoro, ecc.). In tal caso, il
libero commercio internazionale diventa uno scambio disuguale. Un caso tipico è quello di un Paese, cosiddetto
sviluppato, che si impegna nel commercio internazionale con un Paese in via di
sviluppo. Il Paese ricco e sviluppato tende a specializzarsi in prodotti
industriali ad alta tecnologia e ad elevato valore aggiunto, e punta
all’innovazione tecnologica e alla formazione del capitale umano. Il Paese
povero, in via di sviluppo, si specializza invece nel raccolto ed estrazione
delle materie prime oppure nella realizzazione di prodotti di bassa tecnologia,
a basso valore aggiunto. Questo Paese
mira ad essere molto competitivo; pertanto adotta politiche di
deflazione salariale e di riduzione degli standard ambientali che, nel medio
lungo termine, tendono a ridurre la qualità della vita e ad avviare il Paese
verso una stagnazione sociale ed economica.
Economie in condizioni di piena occupazione. E’ questa un’importante condizione
di corretto scambio commerciale perché assicura che i due Paesi non impongano,
al loro interno, condizioni di deflazione salariale per ridurre i costi di
produzione delle merci. Oggi, in
un’economia dai connotati sempre più mercantilistici, questa è una condizione
sempre più difficile da verificare.
Assenza dei costi di
trasporto delle merci. Una condizione per assicurare vantaggi reciproci nel commercio internazionale è che lo scambio di
merci tra i Paesi avvenga con costi nulli o praticamente trascurabili. Con il progressivo aumento
del costo dei carburanti, la voce di costo del trasporto delle merci sta
lievitando e può assumere valori molto diversi nei due Paesi. Un aspetto,
questo, che danneggia lo scambio commerciale, soprattutto se in un Paese il trasporto
avviene prevalentemente per via terra, che è la voce di trasporto più costosa.
La
fallacia del vantaggio comparato, in regime di globalizzazione
Quando un Paese ragiona
sul proprio sistema socioeconomico complesso e lo osserva proiettato sul piano
di astrazione del “vantaggio comparato”, ricerca le leggi e costruisce dei modelli
di politica economica che tengono conto dei vantaggi che il Paese consegue
impegnandosi nel libero scambio commerciale con un Paese partner. Poi, passa a
ragionare sullo stesso sistema socioeconomico, ma lo osserva proiettato sul
diverso piano di astrazione del “vantaggio assoluto”, dove non sussistono le
condizioni di validità di Ricardo perché, ad esempio, ci si trova in condizioni
di libera circolazione internazionale dei capitali. Dato però che, mentre si
ragiona, il passaggio da un piano di astrazione all’altro è un processo mentale
che avviene in modo generalmente inconsapevole, ecco che appare del tutto
naturale continuare a ragionare sul nuovo piano di astrazione mantenendo le
stesse leggi, gli stessi modelli e le stesse dinamiche comportamentali che
erano state validate sul piano di astrazione originario.
Dall’esame delle condizioni di validità di Ricardo emerge chiaramente che nell’attuale contesto socioeconomico
mondiale, globalizzato, con la libera circolazione
internazionale dei fattori di produzione e, in particolare, dei capitali, non
sussistono le condizioni per applicare il principio del vantaggio comparato
Quindi, insistere nel
promuovere il commercio internazionale significa: trarre vantaggio dalla situazione, in modo fraudolento, oppure essere inconsapevoli vittime della fallacia
della realtà fraintesa. La propaganda neoliberista, che insiste nel voler far
crescere il commercio internazionale, facendo riferimento al principio del “vantaggio
comparato” che garantirebbe importanti benefici a tutti i Paesi, sarebbe solo
una fraudolenta fallacia. Infatti, in mancanza delle condizioni che assicurano il
“vantaggio comparato”, tra i due Paesi che commerciano si instaura il
“vantaggio assoluto” e, in tal caso, i benefici dello scambio vanno tutti al Paese che si trova in posizione
di forza, mentre l’altro soccombe.
Quando si è in
condizioni di libera circolazione internazionale dei capitali e un Paese pensa
comunque di insistere nel commercio internazionale con altri Paesi, senza verificare
accuratamente l’esistenza delle condizioni che gli consentono di trarre
vantaggi da quel commercio, allora significa che quel Paese è caduto nella
trappola della fallacia della realtà
fraintesa. Sovrapporre i due piani di astrazione (del “vantaggio comparato”
e del “vantaggio assoluto”), che sono
tra loro incommensurabili ed irriducibili, è un’operazione del tutto priva di
senso ed anche molto rischiosa per l’economia del Paese.
In piena epoca di globalizzazione, con le dimensioni dell’economia
planetaria che già
minacciano di violare la capacità di carico globale del pianeta, gli economisti
ecologici mettono in guardia dall’ulteriore crescita del libero commercio
internazionale e dal promuovere ogni altra attività che favorisca la crescita
di scala dell’economia globale. Il rischio di superare la scala ottimale e di
entrare nella regione della crescita antieconomica è molto elevato e, questo, a
prescindere da ogni aumento dell’efficienza allocativa.
L’evidenza sperimentale conferma
che, nonostante la gigantesca crescita del commercio internazionale avutasi
negli ultimi tempi, i Paesi partner commerciali non hanno rilevato i tanto
proclamati benefici per tutti, promessi dal principio del “vantaggio comparato”.
Piuttosto si sono registrati solamente dei vantaggi assoluti a favore di
partner commerciali che si trovano in condizioni di forza come le grandi compagnie
multinazionali che, dalla globalizzazione, hanno tratto faraonici profitti.
Sempre l’evidenza
sperimentale indica che la spinta neoliberista ad intensificare il libero commercio
internazionale è stata la principale causa del crescente disagio che serpeggia
nel tessuto sociale di tutti i Paesi del mondo ed è uno dei principali fattori
dell’ingiusta distribuzione planetaria della ricchezza. Un ricchezza che,
grazie al paradigma tecnocratico neoliberista, oggi dominante, è distribuita in
un modo sempre più iniquo e si sta concentrando nei Paesi industrialmente e
istituzionalmente più avanzati e, all’interno di quei Paesi, nella fascia di popolazione
più ricca.
Conclusioni
L’Occidente, obnubilato dal mito della crescita economica materiale illimitata e sedotto dalla logica ricardiana (mal interpretata) del vantaggio comparato è caduto in due madornali fallacie: la globalizzazione e la crescita ad oltranza del libero commercio internazionale. Obiettivi che ha raggiunto grazie all’estrema mobilità internazionale dei capitali e con l’intervento di Partner commerciali impegnati in un commercio internazionale, in condizioni di scambio sleale, del tutto irrispettose delle condizioni, indicate da Ricardo, per un commercio internazionale reciprocamente vantaggioso.
L’Occidente, obnubilato dal mito della crescita economica materiale illimitata e sedotto dalla logica ricardiana (mal interpretata) del vantaggio comparato è caduto in due madornali fallacie: la globalizzazione e la crescita ad oltranza del libero commercio internazionale. Obiettivi che ha raggiunto grazie all’estrema mobilità internazionale dei capitali e con l’intervento di Partner commerciali impegnati in un commercio internazionale, in condizioni di scambio sleale, del tutto irrispettose delle condizioni, indicate da Ricardo, per un commercio internazionale reciprocamente vantaggioso.
Come conseguenza di tali errori fatali, l’Occidente oggi si trova ad :
-
aver
ceduto interi settori dell’attività economica ai Paesi emergenti, senza
minimamente impegnarsi a competere per le limitate risorse naturali non
rinnovabili, ancora accessibili;
-
essersi
lanciato in un’attività di libero scambio commerciale con i Paesi emergenti, in
condizioni assolutamente penalizzanti, ignorando del tutto i requisiti per un
commercio internazionale equo e reciprocamente vantaggioso, secondo il
principio del “vantaggio comparato”.
12 CONFIDA NEL CAPITALE NATURALE PER ALIMENTARE LA
GRANDE ILLUSIONE DELLA CRESCITA BIOFISICA ILLIMITATA
In molti Paesi occidentali
l’economia è cresciuta a tal punto che il fattore limitante che ostacola l’ulteriore
crescita non è più il capitale artificiale bensì il capitale naturale non
rinnovabile ancora rimasto.
·
Nelle
zone di pesca oceanica, la quantità di pesce che si può ancora pescare dipende
dalla popolazione ittica rimasta e non dal numero delle navi da pesca che sono
ferme nei porti, in mancanza dei banchi di pesci da pescare.
·
La
quantità di legname da costruzione disponibile dipende dalle foreste ancora
rimaste e non dal numero di segherie esistenti, molte delle quali rimangono
chiuse in assenza di legname da lavorare.
·
La
quantità dei derivati petroliferi dipende dal greggio estraibile dai giacimenti
e non dal numero di raffinerie di petrolio che finiscono per arrugginire in
assenza del greggio da raffinare.
·
Una
diga possente e ben costruita non serve a nulla se, a monte, non esiste un sano
bacino imbrifero che assicura gli indispensabili servizi ecosistemici,
funzionali ad impedire l’erosione dei fianchi delle montagne e il riempimento,
con fango, del bacino artificiale.
Ai Paesi che hanno
esaurito in massima parte il loro capitale naturale non rinnovabile (risorse
biofisiche sovra sfruttate, minerali utili e combustibili fossili) rimangono
ancora due possibilità:
a)
cercare disperatamente di accaparrarsi
il capitale naturale ancora rimasto,
che non appartiene a nessuno (risorse collettive internazionali) oppure
b)
cercare, grazie al commercio
internazionale, di importare il capitale naturale dai Paesi in via di sviluppo, che ne
dispongono ancora in discreta abbondanza e che possono ancora permettersi di
esportarlo oppure che sono costretti a farlo.
La globalizzazione,
l’apertura al libero commercio internazionale e l’importazione di capitale
naturale dai Paesi emergenti spingono l’economia mondiale ad un’ulteriore crescita
e creano,
nei Paesi avanzati dell’
Occidente, l’illusione di poter continuare a consumare ben oltre la capacità
portante del loro territorio e mantenere indefinitamente il loro elevato tenore di vita.
E’ un’illusione che,
però, è destinata a svanire in breve tempo, per due ragioni.
In primo luogo, perché c’è il
rischio, molto concreto, di avere già superato la scala ottimale dell'economia globale e di essere entrati
nella regione della crescita antieconomica: una crescita, misurata dal PIL,
alla quale corrisponde una diminuzione di prosperità e di benessere.
In secondo luogo, perchè
i Paesi che importano il capitale naturale e che pensano di avere assicurata
una crescita economica biofisica illimitata sono tutti vittime della tipica fallacia di composizione. L’errore consiste
nel confondere i livelli olonici del sistema socioeconomico complesso e pensare
di poter estendere all’insieme di tutti i Paesi del mondo (a livello macro) la
stessa dinamica di importazione del capitale naturale, che è valida nei
rapporti commerciali tra i singoli Paesi (a livello micro). L’illusione
persiste fino a quando tutti i Paesi, a livello olonico del tutto, cercano di
importare il capitale naturale, del quale hanno tutti un grande bisogno. Allora
appare subito evidente l’impossibilità logica, in quanto i Paesi non possono, tutti contemporaneamente,
importare capitale naturale. Di fatto, i pochi Paesi che potranno beneficiare dei vantaggi derivanti dall’importazione di
capitale naturale saranno quelli in posizione più forte, mentre
tutti gli altri dovranno soccombere. Comunque, anche questi Paesi avvantaggiati non
potranno beneficiare in eterno dell’importazione di capitale naturale non
rinnovabile perchè è comunque una risorsa condannata ad essere liquidata
in breve tempo.
I
problemi della crescita del commercio internazionale del capitale
naturale
La globalizzazione e il libero
commercio internazionale del capitale naturale solleva diversi importanti
problemi.
a)
I
Paesi che godono dei benefici derivanti dall’importazione del capitale naturale
non sono gli stessi Paesi che pagano i costi ambientali dovuti alla
liquidazione delle risorse naturali non rinnovabili e all’inquinamento. Una tale
dinamica allenta il controllo che le comunità possono esercitare, sull’ambiente,
a livello locale, aumentando così il
rischio di superamento dei limiti.
b)
Il
più facile accesso alle risorse naturali non rinnovabili, tende ad aumentare il loro consumo, a livello
planetario, e ad anticipare la saturazione dei bacini di smaltimento dei
rifiuti.
c)
I
Paesi raggiungeranno, tutti insieme, i limiti ecologici e si troveranno a dover
affrontare simultaneamente le relative conseguenze. A causa della globalizzazione,
i vari Paesi non potranno sperimentare separatamente, ciascuno in tempi
diversi, le varie strategie di difesa nazionale e non potranno imparare
dall’esperienza di altri Paesi che, in assenza di un’economia globalizzata, avrebbero
potuto trovarsi ad affrontare per primi il raggiungimento dei limiti ecologici
nazionali. Quando arriverà il tempo, non avremo scampo e l’intera economia
mondiale, globalizzata, collasserà tutta insieme.
Conclusioni
Per l’economia tradizionale, il libero commercio internazionale è considerato un fattore positivo perchè aumenta i consumi delle risorse naturali. L’economia ecologica dello stato stazionario, invece, vede il libero scambio internazionale con grande preoccupazione perché preme per un aumento della scala dell’economia globale oltre il valore ottimale, spingendola nella regione della crescita antieconomica.
Per l’economia tradizionale, il libero commercio internazionale è considerato un fattore positivo perchè aumenta i consumi delle risorse naturali. L’economia ecologica dello stato stazionario, invece, vede il libero scambio internazionale con grande preoccupazione perché preme per un aumento della scala dell’economia globale oltre il valore ottimale, spingendola nella regione della crescita antieconomica.
Si stima che circa
il 50 % del commercio internazionale sia attualmente costituito dalla
simultanea importazione ed esportazione di uno stesso tipo di merce. Ciò
significa che, ad esempio, esistono due flussi commerciali di automobili che si
muovono in direzioni opposte. Un flusso è quello degli autoveicoli che gli USA
importano dall’ Europa e un altro flusso, contemporaneo, è quello degli autoveicoli
che l’ Europa importa dagli USA. Sembra del tutto logico pensare che non si
possa avere un grosso beneficio dallo scambio di prodotti quasi del tutto
simili. In tali casi, forse, sarebbe più semplice e con minori costi di
trasporto, che i Paesi, invece di scambiarsi le merci, si scambino solo le
informazioni (i progetti, le ricette, ecc.).
La
teoria economica tradizionale, neoclassica e neoliberista, ritiene che il
miglior servizio che questa nostra generazione può offrire a quelle future sia quello
di massimizzare il nostro benessere oggi. Proprio così, avete capito bene! La
teoria economica tradizionale, oggi dominante, crede fermamente che la “mano
invisibile” trasformi il nostro utilitarismo o meglio l’egoismo e l’avidità
individuale in beneficenza sociale, in generosità intergenerazionale.
Secondo
questo egoistico, edonistico e singolare punto di vista, dobbiamo accumulare
quanto più capitale artificiale possibile per soddisfare i nostri bisogni più smodati,
il nostro ego. Non importa se questo comporta la totale ed irreversibile
distruzione del capitale naturale e dei servizi ecosistemici. Per gli economisti tradizionali, grazie al
principio di sostenibilità debole, il capitale artificiale che stiamo
accumulando in grande quantità potrà soddisfare anche i bisogni di tutte le
future generazioni, le quali, per giunta, dovranno esserci grate per aver
lasciato loro in eredità un mondo, senza natura e senza ambiente, ma pieno di
prodotti e servizi artificiali (che, ovviamente, dovranno essere soggetti a
manutenzione, per evitare il loro rapido degrado e l’obsolescenza)!
Gli economisti
ecologici hanno, invece, un diverso punto di vista. Essi ritengono che il principio
di sostenibilità debole, per il quale il capitale naturale può essere
integralmente sostituito dal capitale artificiale, non sia per nulla sensato. Per
tornare all’esempio di prima: le navi da pesca che rimangono ferme nei porti
non si possono trasformare in banchi di pesci da pescare; le segherie che rimangono
chiuse non si possono trasformare in legname da lavorare; le raffinerie di
petrolio che rimangono chiuse e finiscono per arrugginire non si possono
trasformare in petrolio greggio da raffinare; una diga possente e ben costruita
non si può trasformare in servizi ecosistemici capaci di impedire che i fianchi
delle montagne vengano erosi e che il bacino artificiale si riempia di fango.
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