LE CRITICITA’ DEL PIL – Parte 5 (perché il PIL è un pessimo indicatore di prosperità)
Prosegue la discussione
di approfondimento sulle principali critiche mosse nei confronti del PIL allo scopo
di fornire un contributo di chiarezza, fare luce sui suoi numerosi lati oscuri,
tenuti nascosti dall’economia tradizionale, e ridimensionare l’esagerato ruolo
che oggi il PIL ricopre nella contabilità nazionale ed internazionale degli
Stati. E’ fondamentale che il cittadino elettore si renda conto che il PIL è solo
un indicatore sintetico quantitativo, espresso in una dimensione valoriale,
simbolica, monetaria (in pratica, è un numero) e non può misurare in modo serio
ed adeguato le prestazioni di un sistema tanto complesso come lo è l’economia
di un Paese. E’ assolutamente necessario affiancare o, meglio ancora,
sostituire il PIL con un insieme di indicatori, biofisici, qualitativi, più
complessi, capaci di valutare in modo appropriato il livello di benessere e
guidare l’economia del Paese verso uno sviluppo sostenibile.
7. IL PIL NON
PROMUOVE L’EQUA DISTRIBUZIONE DEI REDDITI
La crescita
economica illimitata
Dai tempi
dell’illuminismo fino ad oggi, in piena era tecnocratica, la classe dirigente
ha sempre promosso la crescita materiale illimitata dell’economia; il dogma dell’economia tradizionale e, sia pure con qualche difficoltà,
ancora oggi l’economia mondiale sta crescendo secondo una dinamica di tipo
esponenziale. Da poco meno di un secolo, la crescita viene misurata e tenuta
sotto controllo dal PIL (Prodotto Interno lordo), un indice di
attività economica, espresso in valore monetario, il cui andamento, di recente, è attentamente
seguito da tutti ed è fonte di quotidiana preoccupazione.
La classe dirigente
difende ad oltranza la crescita economica illimitata perché è convinta che sia l’unica
soluzione per risolvere tutti i
principali problemi socioeconomici del mondo e, nello specifico, il problema della povertà e della
crescente disuguaglianza tra ricchi e poveri, senza dover ricorrere a politiche
economiche specifiche per un’equa distribuzione
della ricchezza che, ovviamente, non sono gradite alle elite.
Occorre dire che, almeno
per una volta, anche la Chiesa si è trovata d’accordo con il pensiero secolare nel promuovere la teoria della crescita economica
materiale infinita. Dopo
il fallimento di tutti i provvedimenti che, in passato, erano stati adottati
per assicurare un’equa distribuzione della ricchezza, la Chiesa aveva riposto
una grande speranza nell’innovazione tecnologica e nella crescita economica
illimitata, credendole la soluzione ai problemi della povertà. Ora sappiamo che non è stato così. Però fu anche grazie al parere favorevole
della Chiesa che il paradigma della crescita economica materiale illimitata, venne considerato la panacea di ogni problema economico mondiale, acquisì grande prestigio e potè consolidarsi fino a diventare
un dogma.
La
distribuzione dei redditi, secondo l’economia tradizionale
Il paradigma della
crescita economica perenne, che è coerente con la visione preanalitica della
teoria economica tradizionale:
- non stabilisce un limite inferiore né uno superiore al reddito dei singoli individui nè alla ricchezza accumulabile e
- non limita neppure la disuguaglianza dei redditi tra le diverse classi sociali.
A dire il vero, l’idea di
fissare un limite inferiore al reddito gode di un ampio consenso tra i
cittadini ed è anche sostenuto dalla classe politica, salvo poi temporeggiarne
l’applicazione. Viceversa, il pensare di stabilire anche un tetto massimo al
reddito viene istintivamente rifiutato dalla gente perchè contrasta con la
visione, tutta occidentale, dell’individuo libero che, con la sua volontà e
abnegazione, può superare ogni ostacolo e quindi ha tutto il diritto di arricchirsi
senza limiti.
I sostenitori del paradigma
della crescita economica illimitata pensano che, in passato, l’economia dello
stato stazionario non sia stata la condizione evolutiva normale ma una
necessità storica, di una società sottoposta a diversi limiti. Oggi però, essi
sostengono, i progressi della scienza e della tecnologia hanno rimosso gran
parte di quei vincoli e possono consentirci di risolvere il problema della povertà
assegnando un livello mimino di reddito a tutti, senza essere costretti a porre
un limite massimo ai redditi.
La fascia opulenta della
popolazione pensa che non sia giusto fissare un limite superiore ai redditi perché
tutti devono essere liberi di potersi arricchire, senza limiti. Secondo loro è giusto
che aumenti la disuguaglianza tra ricchi e poveri in quanto la considerano una
condizione per stimolare una vigorosa crescita economica.
La loro tesi è che, investendo
in modo efficiente ed oculato le loro favolose fortune, i ricchi fanno crescere l’intera economia e, per
ricaduta, anche la fascia povera della popolazione se ne avvantaggia e migliora
le proprie condizioni economiche. Secondo un famoso adagio di Wall Street:
”quando la marea sale, solleva tutte
le barche”.
Nella sua arroganza e
sfrontatezza, la fascia ricca della popolazione non si vergogna minimamente di affermare
che è giusto che i ricchi diventino sempre più ricchi perché, solo così, anche
i poveri ne possono trarre beneficio. E’ la cosiddetta “teoria dello
sgocciolamento”, una teoria balorda, secondo la quale la società dovrebbe
essere grata ai ricchi perché sono loro i grandi benefattori dell’umanità.
Teoria dello
sgocciolamento
Il punto di
vista dell’economia ecologica
L’economia dello stato
stazionario, tra i suoi principi fondamenti, prevede l’individuazione del
limite minimo e del limite massimo del reddito. Nella visione dell’economia
ecologica, detta anche economia dello stato stazionario, esiste una dimensione
o scala ottimale del transflusso (flusso di risorse naturali biofisiche) che
l’ecosistema può sostenere, nell’interscambio con il sistema economico. A causa
di ciò è necessario fissare un limite al livello di reddito massimo procapite
ammissibile perché non è giusto che tutta la ricchezza vada a finire nelle mani
di pochi individui. D’altra parte, dato che l’economia è un gioco a somma zero,
se i ricchi si arricchiscono sempre di più, i poveri devono ulteriormente
impoverirsi. Quindi, se l’obiettivo della politica economica è quello di
aumentare il reddito minimo ad un livello dignitoso ed esiste anche il vincolo
delle dimensioni ottimali dell’economia, allora si deve necessariamente imporre
anche un limite superiore al reddito.
La critica dell’economia
ecologica
Con l’attuale dinamica di crescita,
molto prima di
raggiungere il limite della catastrofe ecologica (punto D) (Fig. 1) dove i costi marginali della crescita tendono
all’infinito, l’economia globale supererà il limite economico (punto B) ed entrerà nella zona della crescita
antieconomica, dove i costi marginali dell’ulteriore crescita superano i
benefici marginali. E’ persino probabile che l’economia globale abbia già
superato la dimensione limite ottimale e che ora si trovi nella zona della
crescita antieconomica.
Purtroppo non ne
possiamo esserne certi a causa dell’inadeguatezza del nostro sistema di
contabilità nazionale e mondiale che è basato sul PIL, un semplice indicatore
di attività economica aggregata. E’
opportuno ricordare che il PIL
non discrimina tra la diversa natura delle risorse scambiate; pertanto non permette di contabilizzare
separatamente i costi marginali e i benefici marginali della crescita, per
poterli distinguere.
Sembra paradossale, ma
l’applicazione di uno strumento non è mai del tutto neutra. Nella contabilità
nazionale, l’uso del PIL spinge un Paese a promuovere una politica economica di
crescita illimitata ma non gli fornisce gli strumenti per capire se sta
prosperando oppure se sta collassando.
Fig. 1. Visione jevoniana dei limiti alla crescita della macroeconomia
La tesi di chi afferma
che sia sostenibile lo sviluppo economico basato sulla crescita materiale illimitata
e su un crescente divario tra ricchi e poveri non è assolutamente difendibile, per
diversi motivi.
Un
problema di sostenibilità ambientale.
Il
sistema economico globale (la macroeconomia) è un
sottosistema aperto
agli scambi di materia e di energia (il transflusso) con la biosfera
(ambiente) e completamente incorporato in essa. A sua volta, la biosfera o
ecosistema globale è un sistema di dimensioni limitate, chiuso alla materia e
aperto unicamente all’energia radiante, che ha il sole come principale fonte di
energia.
Con il
crescere delle dimensioni (crescita del transflusso di risorse biofisiche,
misurate dal PIL), l’economia globale invade la biosfera (che è di dimensioni
limitate) e, ad un certo punto, inizia ad interferire con i suoi limiti
ecologici. In pratica, si inizia a pagare i costi opportunità del capitale naturale
e dei servizi ecosistemici, che prima erano disponibili
del tutto gratuitamente.
Se è
vero, come si è già accennato, che l’economia globale ha ormai superato le
dimensioni ottimali, la crescita economica si è trasformata in una crescita
antieconomica. Siamo entrati in una regione dove, al margine, i costi
ambientali e sociali (dovuti all’esaurimento delle risorse naturali e alla saturazione
dei servizi ecosistemici di assorbimento dei rifiuti) stanno crescendo più
velocemente dei benefici dovuti alla crescita della produzione; una crescita
del PIL che ci sta rendendo tutti più poveri e non più ricchi. Purtroppo, in
mancanza di uno strumento di misura adeguato non ne possiamo essere
assolutamente certi e questo espone la nostra economia ad un grave rischio.
Siamo nelle stesse condizioni di un automobilista
che guida la propria automobile con gli occhi bendati.
Misurando
la crescita economica con il PIL, possiamo solamente conoscere l’attività
economica nel suo complesso, senza però distinguere tra costi e benefici della
crescita. Solo a titolo di esempio, nella contabilità basata sul PIL, le spese
difensive, che si devono sostenere per mitigare o risolvere i problemi ambientali
della crescita, vanno a sommarsi al PIL invece che a sottrarsi. Questa è l’ulteriore
dimostrazione che il PIL non è un indicatore sul quale basarsi per progettare e
attuare politiche economiche sostenibili.
A questo
punto è bene fare una precisazione. Non sto biasimando la ricchezza; è ovvio
che è una componente importante del benessere e che è meglio essere ricchi piuttosto
che poveri. Quello che cerco di mettere in chiaro è che, in un mondo di risorse
finite, la ricchezza è importante ma solo fino ad un certo punto. Continuando
ad aumentare il consumo delle risorse naturali, per far crescere il PIL, siamo
proprio sicuri che anche la ricchezza, quella vera, aumenti in modo proporzionale?
Non ci sorge il dubbio che, oltre un certo limite, non ci conviene più andare?
Se pensiamo alla sempre maggior difficoltà di procurarci le risorse naturali di
cui abbiamo bisogno per crescere (che si esauriscono) e al sempre maggior
inquinamento che procuriamo e che la natura non riesce più a riciclare, non è possibile che, ad un certo punto, ci
convenga smettere di crescere, essendoci resi conto che l’ulteriore crescita ci
procura un “malessere” che è superiore al “benessere” che potremmo ricavare?
Un
problema di equità sociale.
Anche
assumendo per un istante (cosa non vera) che, oltre un certo limite, la
crescita non comporti costi ambientali superiori ai benefici, ossia che l’economia non entri nella regione
della crescita antieconomica, vi sono altri motivi per dubitare della
sostenibilità della crescita economica materiale illimitata.
I dati
sperimentali indicano che, nei Paesi poveri,
la produzione di beni e servizi serve soprattutto a soddisfare i bisogni
primari mentre nei Paesi ricchi la produzione marginale serve sempre di più a
soddisfare i desideri relativi. Quindi è molto probabile che, nei Paesi poveri,
la crescita al margine sia economica perché serve soprattutto a produrre beni e
servizi per soddisfare i bisogni assoluti. Diversamente, nei Paesi ricchi, la
crescita potrebbe già essere antieconomica perché serve a produrre beni e
servizi che soddisfano principalmente i desideri relativi.
Nei
Paesi ricchi, dunque, le condizioni di benessere dipendono da quanto il Paese è
in grado di assicurare condizioni di equa distribuzione dei redditi e della
ricchezza. E’ principalmente il divario
di reddito tra ricchi e poveri e non il reddito assoluto, il fattore che
destabilizza una società, perché distrugge il senso della comunità, della solidarietà
e della fratellanza. Un’eccessiva disuguaglianza di reddito genera forti
risentimenti nella fascia meno abbiente della popolazione e provoca, nella
fascia opulenta, il desiderio di rinchiudersi in un isolamento forzato che
inaridisce i cuori.
In un’economia in
perenne crescita, il divario tra ricchi e poveri, invece di attenuarsi, tende
ad aumentare, con il risultato che la società si trova suddivisa tra una
piccola fascia di individui, sempre più ricchi, dove la ricchezza si concentra,
ed il resto della popolazione che si impoverisce. Al crescere della
disuguaglianza economica tra gli individui, la società diventa sempre meno
felice e resiliente ed il potere politico tende a concentrarsi, con grave
pericolo della democrazia, fino ad assumere la connotazione di una teocrazia o
di una plutocrazia.
In un Paese avanzato,
dove sono già soddisfatti i bisogni primari (cibo, vestiti, riparo, salute,
sicurezza personale), per
combattere la povertà e conseguire condizioni di prosperità e di sviluppo
sostenibile occorre soprattutto preoccuparsi di realizzare
un’equa distribuzione dei redditi
e della ricchezza. A tal fine, si deve abbandonare, da subito, la politica propugnata dalla teoria economica
tradizionale e basata sul dogma della crescita materiale illimitata. Si deve
essere consapevoli che una tale politica è perfettamente inutile e serve solo a
favorire un grande spreco di risorse naturali, che vengono destinate a
sostenere una crescita pensata principalmente per soddisfare i desideri volubili
dei ricchi.
Impossibilità
di basarsi sull’innovazione tecnologica
I progressi della
scienza e della tecnologia non possono sostenere una crescita economica
biofisica illimitata proprio perché la tecnologia umana è soggetta ai limiti
della termodinamica e il capitale artificiale (prodotto dall’uomo) non è un
perfetto sostituto del capitale naturale. Paradossalmente, è proprio in virtù
dell’enorme potere acquisito dalla tecnologia della produttività che oggi
l’economia globale si trova in grosse difficoltà. E’ cresciuta troppo e si sta
pericolosamente avvicinando ai limiti ecologici imposti dall’ambiente; le
risorse naturali iniziano a scarseggiare e i servizi ecosistemici stanno
incominciando a degradarsi.
Insistere con il dogma
della crescita economica materiale illimitata, convinti che solo essa possa
risolvere tutti i problemi, anche quelli ambientali, senza alcuna conseguenza,
è solo l’illusione di un’umanità arrogante, obnubilata dalla sua bramosia di
onnipotenza e sicura della sua potente tecnologia, che crede di avere il
diritto di elevarsi al di sopra della natura, per dominarla a suo piacimento.
Conclusioni
Per
l’economia ecologica, l’obiettivo fondamentale dello sviluppo è la riduzione
della povertà; un obiettivo che oggi è giustamente riconosciuto anche dalle
istituzioni tradizionali (ad es. la Banca Mondiale). La povertà si può vincere con
un’equa distribuzione dei redditi che però non si può conseguire attuando,
secondo i dettami dell’economia tradizionale, una politica di crescita
economica materiale illimitata, che ignora il problema della sostenibilità
ambientale e dell’equità sociale.
Per
affrontare seriamente il problema della povertà e tanti altri che affliggono
l’umanità, la soluzione esiste: i Paesi sviluppati devono immediatamente cessare
la loro crescita antieconomica ed effettuare la transizione verso il nuovo
paradigma dell’ecologia integrale, che si basa sull’economia ecologica o
economia dello stato stazionario, e devono permettere ai Paesi in via di sviluppo
di continuare, ancora per un po’, con la loro crescita economica. Purtroppo è
una soluzione inapplicabile nell’attuale contesto, fortemente ideologizzato,
della globalizzazione che difende il solito dogma della crescita materiale
illimitata, questa volta, ovviamente, globalizzata.
La
transizione verso il nuovo paradigma dell’ecologia integrale richiede politiche
nazionali e internazionali basate
sull’economia
ecologica, che includono il transflusso tra i concetti più fondamentali;
politiche pensate per limitare le dimensioni della macroeconomia rispetto a
quelle dell'ecosistema, per gestire adeguatamente le rendite delle risorse
naturali e fornire le entrate statali per i servizi pubblici.
Le politiche
economiche nazionali dovranno essere efficienti e includeranno idonei
dispositivi che le proteggono da una concorrenza sleale che esternalizza i
costi e dalla corsa competitiva alla riduzione degli standard; fenomeni che
stanno attualmente guidando la globalizzazione. Non si deve pensare che tali
provvedimenti siano di natura protezionistica; non servono a proteggere le industrie
nazionali inefficienti ma a mettere in condizione le aziende nazionali
efficienti di competere alla pari sui mercati.
8. IL
PIL NON VALORIZZA IL CAPITALE NATURALE E I SERVIZI ECOSISTEMICI E NE FACILITA LA
DISTRUZIONE
Lo scopo della
contabilità nazionale è di valutare il risultato economico di un Paese,
misurando il capitale e il flusso dei redditi. Occorre però accertarsi che il
consumo di capitale naturale sia sostenibile; ossia che lo si possa consumare
ogni anno, indefinitamente, senza cha la capacità produttiva venga intaccata.
Diversamente, se il consumo erode il capitale, questo si esaurisce
progressivamente e quando sarà totalmente distrutto, non produrrà più alcun
reddito.La definizione di reddito sostenibile o reddito hicksiano, da
Sir John Richard Hicks (economista inglese, 1904 – 1989), è la seguente:
il reddito hicksiano è il massimo
reddito che si può consumare indefinitamente, in modo sostenibile, senza intaccare il capitale originario.
Si fornisce inoltre la
definizione di ammortamento:
l’ammortamento è una pratica contabile
che tiene conto del deprezzamento del valore di un bene o di un investimento
per consentire alle imprese di effettuare i necessari investimenti in capacità
produttiva, allo scopo di mantenere intatto, nel tempo, il capitale originale.
Di seguito, si adotta le
definizione di capitale artificiale proposta da Irving Fisher (economista e
statistico statunitense, 1867 –1947):
il capitale artificiale è la riserva
di beni capitali e di beni di consumo (beni e servizi) prodotti dall’uomo,
ottenuti cumulando conoscenza e lavoro
La contabilità nazionale
riconosce il solo capitale artificiale e tiene conto del suo deprezzamento tramite
l’ammortamento (AMCA). Per misurare il reddito sostenibile si usa il
PIN (Prodotto Interno Netto), un indicatore macroeconomico monetario che tiene
conto delle risorse da investire per evitare il deprezzamento del capitale
artificiale accumulato nell’anno, in
modo da mantenerlo integro ed efficiente. Il PIN
si ottiene dal Prodotto Interno Lordo (PIL)
sottraendo l’ammortamento del capitale artificiale (AMCA) (macchinari, strumenti, fabbriche, ecc.):
PIN = PIL – AMCA
A differenza di quanto
avviene per il capitale artificiale, la contabilità nazionale non considera il
capitale naturale e i suoi servizi ecosistemici, perché li assume infinitamente
disponibili e quindi privi di valore economico. Per tale motivo, non ne
considera il deprezzamento e non esiste un ammortamento, analogo a quello del
capitale artificiale, che tenga conto sia della liquidazione del capitale
naturale non rinnovabile sia dell’esaurimento, per intaccamento, del capitale
naturale rinnovabile e dei suoi servizi ecosistemici. Sebbene possa sembrare
insolito, anche il capitale naturale rinnovabili è soggetto ad esaurirsi.
Questo accade quando viene consumata ad un tasso superiore a quello della sua
rigenerazione o, che è lo stesso, quando il raccolto avviene ad un tasso superiore
al reddito hicksiano.
L’economia tradizionale,
fedele al dogma della crescita economica continua, incentiva una crescente produzione
di capitale artificiale, ottenuto a spese del capitale naturale che viene
consumato, in modo esagerato e irresponsabile, ben oltre la sua capacità di
fornire reddito in modo sostenibile.
E’ merito dell’economia
ecologica aver introdotto il concetto di “capitale naturale”, proprio per sottolineare
il fatto che, dai tempi della fondazione dell’economia tradizionale, le cose sono
molto cambiate. Oggi, le risorse naturali sono probabilmente diventate più
scarse di quelle artificiali, hanno pertanto acquisito un grande valore
economico e costituiscono una parte importante del capitale di un’economia. La
contabilità nazionale, che considera il deprezzamento del capitale artificiale,
a maggior ragione, oggi dovrebbe considerare
anche il deprezzamento delle risorse naturali, che sono diventate
scarse, essendo soggette ad esaurimento.
Dato che il capitale
artificiale e il capitale naturale sono complementari, l’economia umana ha
assolutamente bisogno del capitale naturale (dal transflusso biofisico) dal
quale poter trarre il suo reddito. La sua distruzione da parte dell’uomo è un
comportamento assolutamente illogico e demenziale perché gli si ritorce contro,
danneggiando il potenziale produttivo economico.
Infine un’altra critica
che l’economia ecologica muove nei confronti della contabilità nazionale è che
il PIN non può ancora essere considerato un valido indicatore del reddito
sostenibile perché trascura il deprezzamento del capitale naturale. Per l’economia ecologica, il vero reddito
sostenibile, quello hicksiano, è il Prodotto Interno Netto Socialmente Sostenibile
(PINSS), che si ottiene
dal PIN correggendolo ulteriormente per tener conto delle spese difensive (SD) e dell’ammortamento del capitale
naturale (AMCN):
PINSS = PIN – SD – AMCN
Per inciso, le spese
difensive sono quelle spese sostenute per la bonifica dell’ambiente, non volute
ma necessarie per proteggerci
dalle conseguenze negative, indesiderate, che derivano dall’attività produttiva e dal consumo
dei beni. I costi di
difesa dell’ambiente, a tutti gli effetti, sono costi di produzione e non
prodotti finali di consumo.
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